La necessità del bianco. Il 10° racconto di Francesco Menozzi.

Piccole storie impossibili di ladri, stradoni e fatti inconcludenti

Rubrica di Francesco Menozzi

Racconto pubblicato il 08/03/2023

Ogni volta che raccontiamo una storia ci sentiamo portatori di una testimonianza di vita, che sia la nostra o quella di qualcun altro o che sia una storia mai accaduta, inventata; la vicenda detta come va detta, riguarda noi tutti esseri “urlanti”.

Chiunque può partecipare alla rubrica inviandomi disegni, opere, fotografie da inserire all’interno dei singoli episodi per commentare con un’immagine o un’idea quello che la storia gli ha ispirato. Potete inviare il materiale alla mia mail francescomenozzi55@gmail.com . Sarà mia premura inserire il materiale e citare la fonte.

Francesco Menozzi

Ecco l’elenco di tutti i racconti di Francesco Menozzi che abbiamo pubblicato nella nostra rivista:

  1. La prima notte a Modena
  2. Un sottile filo rosso
  3. La ragazza carmina
  4. Anche Dio ha le sue ragioni che non vanno sottovalutate
  5. L’uovo della discordia
  6. Ossessione nel Borgo Stretto
  7. Le ricorrenze di Dino Cavazzuti
  8. Senza fissa dimora
  9. Romina la dolcezza

Buona (nuova) lettura.

 

Mi chiamo Ivan e sono di Bassano del Grappa ma abito a Modena da venticinque anni. Provengo da una famiglia di buona gente, gente che ha lavorato tutta la vita in lungo e in largo per tutto il paese. Mio papà era commerciante di pneumatici, girava in lungo e in largo per tutto il paese portandoci appresso ogni volta. Mia mamma invece, siccome mio papà girava in lungo e in largo per tutto il paese, non aveva una occupazione seria, di quelle che si fanno per tutta la vita in un posto solo, lei confezionava delle collanine di madreperla finte che vendeva durante i mercati dei vari paesi in cui andavamo a vivere. Aveva una sua bancarella ed ogni volta che ci muovevamo con papà lei doveva preparare tutta la roba per allestire la sua bancarella e vendere le sue collanine di madreperla finte. A causa di questo via vai io non ho saputo da dove provenivo fino a quando all’età di otto anni, uno di un altro paese lontano dal mio mi disse “si sente dall’accento che sei Veneto”, così in quel modo capì che il mio modo di parlare aveva una sua discendenza. Prima non lo sapevo, semplicemente pensavo di essere della strada, di essere nato lungo la strada, anche quando qualcuno mi chiedeva di dov’ero, io segnavo la strada e dicevo “laggiù in fondo, dritto”. E poi mio papà diceva sempre “io sono un anarchico e non sono di nessun paese” lo diceva arrabbiandosi tutte le volte che qualcuno gli chiedeva per chi votava o che cosa ne pensava del governo, degli operai e delle casse integrazioni. Lui ha sempre lavorato, ha sempre onorato il proprio mestiere di commerciante di penumatici, lo ha sempre fatto non attingendo ad una regola particolare su come bisogna vendere gli penumatici, lui li vendeva in ogni modo senza regole. Alle volte partivamo con la macchina piena di penumatici da portare in un paese di montagna, papà sapeva che in quei posti la gente guidava macchine piccole e maneggevoli, così si premuniva di un solo tipo di penumatici che voleva vendere una volta arrivati. La sua tecnica era molto interessante, noi caricavamo gli pneumatici ovunque fosse possibile, all’inizio costruivamo una piccola torre di gomme sopra il tettuccio della macchina, la fermavamo con dei ganci e dei moschettoni ben tirati. Era divertente farlo, sembrava di dover preparare la macchina ad una battaglia, mettendogli addosso tutte quelle gomme come fossero un armatura. Quando con la torre di pneumatici arrivavamo fin sopra la cima del portico, papà diceva che andava bene così, che l’altezza era giusta per passare anche sotto i cavalcavia. Terminata la composizione della torretta, a quel punto mamma scendeva con la sua bancarella mobile chiusa dentro una valigia di cuoio robusta, la infilava dietro il bagagliaio che era già pieno zeppo di gomme, e io anche dietro il mio posto mi dimenavo come meglio potevo perché anche nel mio posto dietro, papà ci metteva gli pneumatici. Si partiva carichi, con la macchina che sembrava una grande palla di gomma nera, gli pneumatici venivamo attaccati anche a lato delle portiere, papà diceva che era anche per questioni di sicurezza, per questo motivo gli pneumatici venivano messi anche sul cofano, alle volte anche sul parabrezza, lasciando scoperto giusto lo spazio necessario a papà per guardare la strada e non rischiare pericoli. Mamma era sempre nervosa, diceva che ci saremo schiantati, diceva che viaggiare in quel modo era pericolosissimo, lo diceva anche a mia zia Ermelinda, lo diceva mentre stavamo per partire ogni volta, e io che mi nascondevo dietro la colonna del portico ascoltavo tutto. Zia Ermelinda ogni volta chiedeva dov’erano i soldi, diceva “se morite tutti dove devo guardare?” riferendosi a quei posti dove papà ogni volta nascondeva il suo malloppo per evitare che i ladri lo trovassero. Mia mamma aveva paura, diceva che si rischiava di morire anche solo in curva con quel carico, diceva che mio papà ci voleva morti. Ma poi succedeva che io guardavo papà mentre fissava la sua torre di penumatici tutto orgoglioso dell’impresa, andavo da lui siccome ero preoccupato e alle volte, quando mamma non dormiva nemmeno la notte e continuava a disperarsi con la zia Ermelinda iniziando a piangere, io mi disperavo e sentivo dentro di me che saremo morti a dieci minuti dalla partenza. Quella sensazione era così forte che certe volte ho pensato di scappare e andare via, prendere la strada dietro la casa e dileguarmi nell’orizzonte. Pensavo che se mi fossi buttato in mezzo ai campi non mi sarebbe successo niente, che a stare coi piedi per terra ad altezza uomo non ti può succedere niente di così grave; ma non l’ho mai fatto. Per questo motivo andavo da mio papà e gli chiedevo se rischiavamo di morire, glielo dicevo seriamente mentre davo una mano stringendo forte le corde, alle volte mi fermavo durante il tiraggio come per fargli capire che ci tenevo, ma lui sempre, ogni volta che gli facevo questa domanda rispondeva ridendo “Lascia perdere tua mamma, quella dice che si muore anche a mangiare la pelle del pollo”. Eppure, avevo sempre la sensazione poco prima di partire, a qualche minuto prima della partenza, che io a casa mia non ci sarei più tornato. Tutto quell’odore di gomma mi faceva venire in mente la morte, pensavo che uno che viene investito poco prima di morire sente quegli odori, odori di gomma penetrare dentro il suo naso fino a raggiungere ogni particella del corpo, così da fargli capire che quella è la fine vera, all’odore di gomma, un odore disumano che non ha simili e sembra provenire dalle cose altamente artificiose che non sembrano provenire da questo pianeta. Così anche solo a respirare mi veniva un magone dentro, per distrarmi guardavo i miei amici che commentavano da fuori la macchina imbellettata di pneumatici, li guardavo cercando di attirare la loro attenzione, ma non riuscivo siccome anche i finestrini dietro erano ricoperti di penumatici a doppia copertura, quelli neri neri che non lasciano speranze. Certe volte con il pallone tiravano delle pallonate contro la macchina sapendo che tutta quella gomma avrebbe solo fatto schizzare il pallone dall’altro lato dell’emisfero, papà da dentro rideva e li aizzava “più forte imbecilli! Tanto non me la rovinate la macchina!” e io che ero dalla parte di chi prende il colpo, desideravo tanto tirarcela una pallonata contro la macchina, anche io volevo provare quella sensazione, sentirmi un rigorista, uno che deve tirare una cannonata contro quella creatura di gomma e lamiera. Ma non succedeva niente di niente e io dovevo starmene seduto dietro al mio posto schiacciato dalle ruote, stando bene attento a non muovermi troppo perché il rischio era quello di spaccare qualcosa. In quegli istanti, quando proprio io non mi potevo muovere, capitava che la sola parte del corpo che ero in grado di muovere erano gli occhi, e così mi guardavo le mani sporche di gomma, mi guardavo i vestiti che erano sporchi anche loro di gomma, se riuscivo mi guardavo il volto sullo specchietto retrovisore e mi accorgevo che anche quello era sporco di gomma, o se mi sforzavo con lo sguardo riuscivo a raggiungere le gambe compresse dalle ruote che ci passavano sopra, e anche lì mi vedevo gli arti sporchi di gomma. Mi veniva un grande senso di malessere e mi scendevano delle lacrime, mi sentivo una gomma umana con l’incapacità di poter gironzolare come un pneumatico, no no, io me ne dovevo stare lì fermo e attendere che durante il tragitto qualche ruota si spostasse e che l’ordine prestabilito da mio padre si scombinasse, così da lasciarmi respirare meglio e muovermi a pezzi, ma muovermi. In quei momenti mi ricordavo quando da piccolino dormivo nella culla bianca, bianchissima con ogni cosa bianca attorno a me: le tendine della finestra bianche di pizzo bianco, il colore del mobile bianco con delle intarsiature bianchissime, il colore della parete bianco, la mia culla bianca, la copertina bianca, i cibi bianchi, le uova bianche, i polli bianchi, la facciate dei palazzi bianche, i miei calzetti bianchi, l’odore della minestrina, anche quello mi sembrava bianco.  

A me partire non piaceva, mi sentivo disorientato, sommerso di dubbi sulla città in cui saremo finiti, tenendo conto del fatto che io nella mia timidezza faticavo ogni volta nel conoscere ragazzi nuovi e stringere amicizie. Eppure accadde che in uno dei viaggi passammo per Modena. Mi ricordo che in quel periodo papà aveva perduto un grosso carico di penumatici a causa di un incendio dentro lo stabilimento che glieli confezionava. Questa perdita aveva causato una specie di smarrimento in lui, non si sentiva così tanto fiducioso nel continuare a fare quel lavoro, mamma ne era contentissima e aveva cominciato a pensare ad una sistemazione definitiva su dai suoi a Bassano del Grappa. Anche io mi sentivo meglio e nonostante alle volte mi sentissi disorientato nel vedere la macchina spoglia di gomme, io poi subito pensavo alla bellezza nel poter gironzolare come diavolo mi pareva per il mio paese, senza dover sentire quel maledetto odore di gomma-morte. Mamma durante i pranzi a base di cose bianche, faceva vedere delle foto a papà, gli mostrava dei posti bellissimi con le montagne imbiancate, gli diceva che lui avrebbe aperto un’officina e che si sarebbe dedicato alle gomme stando fermo, sempre alle gomme ma stando fermo questa volta. Questo a papà metteva tristezza, lui abituato a girare con le gomme in lungo e in largo per tutto il paese, lui che quando sentiva l’odore del penumatico diventava come un intenditore di tartufi e senza nemmeno guardare la gomma sapeva descriverne la provenienza e la qualità. Lui in sostanza doveva continuare a girare con le gomme, non c’era alcuna alternativa alla sua felicità. Così avevamo deciso di andare a Modena a trovare un suo amico, Amos, che all’epoca aveva smesso di vendere le gomme come faceva lui, per iniziare a vendere gelati con un furgoncino ambulante. Amos era l’amico di papà ciccione e senza capelli, viveva in un appartamento vicino alla campagna e parlava anche in dialetto modenese, mentre noi che avevamo girato in lungo e in largo il paese non conoscevamo una sola parola del nostro dialetto o degli altri, a parte l’inflessione della parlata veneta che c’era rimasta dentro come avevo detto all’inizio. Amos era uno che papà aveva conosciuto durante il servizio civile; avevano lavorato assieme in una struttura di recupero per tossicodipendenti, entrambi con la passione dei motori, entrambi fuori luogo e io penso con un incarico che non li soddisfaceva fino in fondo. All’epoca pur di non fare il militare, quelli come mio papà si sceglievano qualsiasi posto, anche il più merdoso pur di non imbracciare il fucile o tirare delle pistolettate al poligono per dodici mesi. Papà raccontava spesso che a Villa “Cicalanti”, in quel posto per tossicodipendenti alla fine si impara a stare lontano dalla droga, che certe storie ti fanno capire come vanno le cose, che la vita vale la pena di essere vissuta senza quelle sostanze nel corpo; ma la verità è che Amos ci finì dentro alla droga e anche gli altri suoi amici, Ennio e Ugo, che all’epoca facevano il servizio civile lì dentro, ci erano finiti dentro la droga e poi tutti e due ci sono morti di droga a distanza di qualche anno. Ricordo che da bambino un insegnante ci diede delle fotocopie con una sorta di storia riguardo alla droga; nella storia si vedeva un bambino che veniva adescato da dei tossicodipendenti che sbucavano da una siepe, gli dicevano “vuoi un tiro?” il bambino diceva di sì. Nella vignetta successiva il bambino si vestiva in maniera più prorompente, con dei pantaloni bucati ed il berretto girato indietro, aveva tra le dita una sigaretta e cantava una canzone mentre nelle cuffie ascoltava la musica. Quella vignetta mi sembrava bella, io quando poi feci un riepilogo della situazione pensai “vorrei fermarmi alla seconda vignetta se fosse possibile”. Ma nella terza vignetta il bambino appariva smorto e con delle occhiaie così evidenti da farlo sembrare uno zombie, gli altri tossici che all’inizio lo avevano adescato si erano ripuliti e vestivano come degli impiegati di banca, mentre lui che non era che all’inizio della tossicodipendenza, appariva smorto e in preda ad una crisi di astinenza. Nella vignetta successiva il bambino, divenuto adolescente, era in un letto di ospedale con una flebo ed il volto che somigliava a quello di un teschio. Morale della favola: la droga velocizza tutto, brucia i neuroni come le tappe, ma è bella all’inizio e ti concia come il ganzo della situazione fino a quando uno non se ne rende conto. Amos che dentro la comunità iniziò a usare la droga chiese proprio aiuto a papà, il quale cercò in ogni modo di aiutarlo, e forse ci riuscì ma non penso utilizzando metodi legali. Dai racconti che ci erano stati fatti dallo zio Antonio, papà sembra che avesse sequestrato Amos e fatto dormire in un casolare fuori dalla struttura di recupero, lo tenne lontano da quell’ambiente, dalla struttura di recupero per tossicodipendenti, che in realtà si stava rivelando una gabbia per Amos. E io penso che questa riconoscenza di Amos sia dovuta proprio dal fatto che papà abbia fatto qualcosa di incredibile per lui, qualcosa che pochissime persone avrebbero voluto fare, anche per le conseguenze legali. Quando andammo a trovare Amos, non avevamo delle grandi speranze. Per tutto il viaggio in macchina papà non faceva altro che dire parole sottovoce come se mia madre non le dovesse sentire; queste parole erano parole di disperazione vera “perderemo tutti i soldi e finiremo in strada”, “se non mi risarciscono tutto il carico quelli dell’assicurazione, Io finisco sull’astrico e mi devo ammazzare”. Mia madre faceva finta di non sentire e io che ero dietro la macchina, come sempre, io sentivo tutto distintamente, come se in realtà mi venisse spifferato alle mie orecchie. Il vento che penetrava dai finestrini leggermente abbassati, faceva arrivare anche le parole di papà, e me le faceva arrivare diritte nella testa, togliendomi tutte le possibilità di pensarci, lasciandomi un leggerissimo sibilo come quello di un arnese che serve per lavorare con precisione il metallo. Ma non dicevo niente, facevo silenzio e cercavo di cogliere ogni particolare. Sapevo che papà aveva momenti di sconforto, era già capitato, e spesso mi accorgevo della gravità del momento in base a come si soffiava il naso con il fazzoletto, o a come muoveva il naso per sistemarsi la stanghetta degli occhiali durante la guida. Quel giorno capì che la situazione era grave, e lo capì proprio dopo che lui soffiandosi il naso, non si accorse che lentamente dalla narice iniziò a scendergli un moccolone grossissimo, degno di un uomo arrivato alla frutta. Quando Amos ci venne a prendere, quando noi arrivammo a Modena, mi ricordo che dopo aver fatto colazione con lo gnocco fritto ed il cappuccino, ci fiondammo subito in campagna, in un paese poco fuori dalla città. Amos abitava a Formigine, ed era lì che aveva il furgoncino dei gelati. Arrivati a casa sua mio papà scoppiò a piangere; quando si accorse del furgoncino, quando capì che era una cosa vera, per davvero, mio papà si piegò come preso da un brutto colpo allo stomaco, e iniziò a piangere. Mamma che all’epoca era parecchio fredda disse “allora li vendi davvero? Quanto ci fai?” ma Amos che non è mai stato un bravo ragioniere guardava noialtri in un modo come se fosse dispiaciuto, “non saprei, posso a malapena pagarmi le bollette, ma finalmente ho i vestiti puliti, vesto di bianco dalla mattina alla sera e faccio poche lavatrici”. Quel giorno lo passammo tutti e quattro racchiusi nel piccolo appartamento di Amos, mentre lui e papà si raccontavano del passato tra una risata e un ritorno amaro alla realtà. Ma a me piaceva guardare i loro volti scambiarsi quei sorrisi e quelle parole veloci, tutte raggomitolate tra di loro per arrivare diritte al punto “e poi, poi tu ti eri messo a mangiare tutta la cioccolata della dispensa” così raccontava Amos riguardo a certi gesti eclatanti di mio padre durante il servizio civile. Arrivammo a notte fonda che noi tutti e quattro sembravamo felici, seppure in uno spazio così ristretto, come quello di una macchina con il fornello a gas e le mattonelle a terra, eravamo felici per davvero. Mamma stese a terra delle coperte e preparò tutto per la notte, papà che passò del tempo nel bagno, uscì che sembrava aver dato una lavata alla tristezza. Da quel giorno in poi le cose andarono via via migliorando, sempre di più. Papà iniziò a lavorare con Amos e sebbene l’assicurazione era riuscita a risarcirgli tutto il carico bruciato, mio papà non ne volle più sapere di pneumatici, si dedicò ai gelati. Ai due venne l’idea di produrli, arrivati a un certo punto smisero di girare con il furgoncino dei gelati, e si crearono un laboratorio di produzione loro. Fecero del gelato così schifoso che all’inizio nemmeno quello che regalavano veniva mangiato, nemmeno i piccioni e nemmeno i topi ci volevano andare vicino a quegli intrugli colorati. Io che facevo delle prove non avevo il coraggio di dire a mio papà che il gelato faceva schifo, così avevo trovato questa formula del “da correggere” senza dare troppe indicazioni. Poi via via le cose migliorarono anche da quel punto di vista, e dopo aver preso lezione da un maestro del gelato tedesco in vacanza per puro caso a Modena, iniziarono a farlo buono. Producevano gelato davvero buono nel giro di poco tempo – da una schifezza ad una galanteria per il palato. Così andò la storia nostra. Così è che io mi son trovato a vivere in questo posto da così tanti anni, e non intendo andarmene via. Perché seppure mio papà e mia mamma sono morti, io nel mio piccolo, mi sembra di esserci arrivato da una notte in questa città. Mi sembra ancora di vivere dentro quella casa di Amos dove mi sembra che sia successo qualcosa di davvero speciale per noi tutti. E le cose speciali capitano raramente, ma capitano spesso se uno ci fa caso. E se capitano quando uno ci fa caso, alla fine, possono capitare anche poche volte. Vedere mio papà indossare la camicia bianca ed i pantaloni bianchi per andare a lavorare mi fece pensare alla bellezza che c’è nelle cose; quando lo vedevo salutarci prima di scendere e salire sul furgoncino, all’inizio, io pensavo dentro di me che papà si fosse ripulito veramente, che quel bianco era una forma di protezione che si era deciso di mettere addosso. Una mattina poco prima di uscire di casa venne vicino al mio letto e mi guardò un istante, rimase in silenzio mentre io stavo fingendo di dormire, mi fece una carezza sulla spalla, mi fece solo quella carezza e io capì che quel bianco doveva essergli veramente entrato dentro anche nelle ossa. Così da quel giorno ho capito cosa significa indossare il bianco.

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