La ragazza carminia. Il terzo racconto di Francesco Menozzi.

Piccola storia impossibile di ladri, stradoni e fatti inconcludenti

Rubrica di Francesco Menozzi

Racconto pubblicato il 31/10/2022

Ogni volta che raccontiamo una storia ci sentiamo portatori di una testimonianza di vita, che sia la nostra o quella di qualcun altro o che sia una storia mai accaduta, inventata; la vicenda detta come va detta, riguarda noi tutti esseri “urlanti”. (F. Menozzi)

Chiunque può partecipare alla rubrica inviandomi disegni, opere, fotografie da inserire all’interno dei singoli episodi per commentare con un’immagine o un’idea quello che la storia gli ha ispirato. Potete inviare il materiale alla mia mail francescomenozzi55@gmail.com . Sarà mia premura inserire il materiale e citare la fonte.

Ecco l’elenco di tutti i racconti di Francesco Menozzi che abbiamo pubblicato nella nostra rivista:

  1. La prima notte a Modena
  2. Un sottile filo rosso

Buona lettura.

 

 

Prologo

Non ci sono rimasti nemici, i cattivi! Son scappati a manciate come scarafaggi dalle tane, e la città è una gigantesca crepa che si è tenuta tutto al suo interno; macerie, ruote, pezzi di legni, ossa, carni di ogni tipo, giovani e vecchie, teste di statue, qualche dente d’oro (anche se raro) e qualche cartolina dipinta a mano…ci giro con piacere seppure non la riconosco più la Modena di una volta. Qua e là c’è ancora qualche bomba inesplosa, sembra un antico manufatto degli dèi ricavato da metalli duri e pitturati di verde; i bambini ci vanno attorno ed i grandi se li vedono dicono “Veh!!! stamo lontàn!” ma quando i genitori sono impegnati nelle loro questioni burocratiche i bambini ci ritornano subito vicino. Pensano sia un enorme giocattolo da cavalcare o da bacchettare con bastoncini recuperati a terra. Le accerchiano e ci si fiondano sopra come per volerle catturare. Ma ecco che all’improvviso si sente un forte “bang!” e del moccioso non è rimasto più nulla. Un nuvolone si alza per le vie della città ma le persone non ci fanno caso più di tanto, alcuni guardano il cielo pensando ci sia ancora qualcuno per aria che sta sganciando, mentre la maggior parte riprende a girare come se nulla fosse. Penserete sia tutto, ma questo è niente confronto a quello che abbiamo subito. Siamo stati gli unici a reggerci le braghe quando sono arrivati i nemici, non abbiamo mollato la presa nemmeno quando ci hanno sparato per le campagne, e nemmeno quando ci hanno cacciato come fossimo cinghiali lungo l’appennino. Noi siamo resistiti e li abbiamo “corretti” a modo nostro. Fatto sta che loro sono fuggiti e noi siamo restati, loro sono scappati ma noi non li abbiamo rincorsi, abbiamo lasciato fare alle loro gambe perché le nostre erano sfinite. Passo dopo passo le cose sono tornate ad essere delle semplici cose, mentre prima le stesse cose potevano essere un cattivo presagio, un incubo, un ricordo di qualcuno che era stato ammazzato qualche istante prima; l’angoscia detta legge anche sugli spilli, non ci si salva facilmente dalla paura, è un ingrediente che insaporisce tutta la zuppa. La guerra non sa niente degli uomini, se ne fotte dei ricordi e degli amori; ha poca voglia di sentire le lagne di un giovane amante, la guerra sta lì al suo posto e non ammette intercessioni di alcun tipo. Dialogo a due, nemico contro nemico, cielo contro terra e terra contro cielo. Prima si spara e poi si parla, così ci hanno insegnato.

Senza nessun diritto ci siamo mossi per le case a chiedere dei pani e del latte caldo, la gente non ci ha guardato bene, non tutti, ma la maggior parte ha storto il naso; certuni ci pensavano peggio degli invasori e non posso dire che avessero tutti i torti. D’altronde chi è che ti deve dare da bere e da mangiare senza conoscerti, solo perché tu a casa sua ti presenti con un fucile carico ed il moccio sotto il naso, dicendo che sei lì per proteggerlo? Nessuno! Ecco com’è che dovrebbe andare. Eppure, nonostante io sia sempre stato di una razza negativa, abbiamo trovato qua e là del bene sotto ogni tipo di forma; sia i vecchi che i giovani ci hanno tenuto nascosti i feriti, ci hanno protetto quando possibile e ci hanno dato delle buone istruzioni per raggirare il nemico e raggiungere i nostri maggiori nei campi strategici. Abbiamo sparato, si, lo abbiamo fatto ma non sappiamo di preciso cosa abbiamo ucciso. A noi il nemico veniva disegnato su di un foglietto con un puntino nero, ci veniva detto che in quei posti ad un determinato momento sarebbero arrivati i soldati dell’armata, e noi che abbiamo sempre avuto i fucili carichi, dovevamo usarli fino all’ultimo colpo per scacciarli il più lontano possibile dalle nostre posizioni. Che truffa! Che blaterata! A vedermici dentro adesso che sono solo come un cane ed ho la testa sgombra, mi sembra di essere stato come un matto in quelle fucilate; cosa mi aveva fatto quel soldato nemico, lì davanti che camminava con i suoi stivali di pelle scura ed il suo giacchetto pulito e stirato per bene? Niente, e a dir la verità siamo stati sempre noi i primi a tirare fuori le armi e a scagliarci contro di loro. Ci veniva detto “sono gli invasori!!! Sono loro!!! vogliono prendere il controllo!!” e noi senza far alcun ragionamento abbiamo usato ogni arma e con tutta la forza dei nostri indici abbiamo premuto e premuto fino a quando dall’altro lato non si muoveva più nulla.

Righetti e Marconi dicevano con toni canterini “Se vinciamo la guerra ci faranno un monumento!”, e questo a furia di ripeterlo e ridirlo in ogni modo era diventato oramai un “detto” tra noialtri. Avevamo imparato una canzone, era un modo per sciogliere la tensione ogni volta che per andare a vedere i corpi dei nemici ci trovavamo un po’ spogliati dai baccani. Erano finiti i fuochi d’artificio e la battaglia una volta terminata ci lasciava dentro ancora dell’euforia simile all’eccitamento; già, perché ad un certo punto quella confusione, quell’odore di piscio e polvere da sparo ti si infila così bene dentro le narici che diventa una droga, ti assale e non ne puoi più fare a meno. È una questione di istinti primordiali, si diviene cattivi secondo un senso animale, mica per volerla vincere la battaglia. Ti viene voglia di ammazzare, di credere che un colpo non è solo un colpo ma una condanna, una sentenza di dio nelle tue mani e se ci pensate moltissime guerre hanno avuto questi motivi alla loro base. La frenesia è così tanta che nemmeno se vieni colpito riesci ad accorgertene subito, la guerra sterilizza da per conto suo certe parti dell’uomo che diversamente non potrebbero reggere quei rimbombi avanti e indietro; così è morto Lanfranco Biagini, con un colpo diritto al cuore durante un combattimento, se lo prese alla prima mitragliata ma nessuno l’aveva capito. Lui si era appostato dietro un albero e continuò a sparare e a sparare fino a quando il suo volto si era spolpato e le sue labbra erano diventate come due pezzi di sigaro rinsecchito. Ma a noi queste cose non ci hanno impressionato perché tutto sommato erano parte del mestiere, e se fai un mestiere, che sia il garzone o il soldato, prima o poi certe cose disgraziate le devi vedere coi tuoi occhi. Non c’è altra strada per diventare un professionista, bisogna imparare a domare le regole del gioco. E poi, detta come va detta, noi abbiamo pensato sempre alle donne, a quelle belle che avremo sposato quando saremo tornati a casa nostra, e la guerra sarebbe diventata solo un racconto da fare per conquistarle ancora di più e con ancora più enfasi. Ma tenere bene in testa l’amore e la guerra è dura, e se qualcuno mischiava le due cose proprio durante la battaglia, succedeva un casino e non ci si poteva fare niente. Alcuni si accucciavano in disparte e si facevano una sega come se nel cervello ci fosse stato un cortocircuito. Per noi altri che invece facevamo distinzioni, arrivati ad un certo punto non riuscivamo più a tenere a bada i nostri uccelli, dovevamo dargli una rimpatriata tra le cosce di qualche donzella, perché se no si rischiava di impazzire certi giorni. Così alcuni di noi sono entrati in certe case che ci veniva detto da qualcuno del posto, e hanno fatto il loro dovere contro la volontà di certe signorine. Non chiamatelo stupro, vi prego! Non dite che quelli sono degli orchi! Non chiamateci puttanieri! La battaglia va combattuta con le teste sgombre da certi pensieri e il sesso è un pensiero ingombrante per un uomo di vent’anni. Lo è più che la famiglia e lo ancora più che la patria; il sesso è il pensiero più ricorrente dai vent’anni in su. Per conto mio non ho mai fatto nulla di ciò, forse avrei voluto quando di fronte a me si presentarono certi occhioni, ma per quello che mi riguarda, certe questioni, soprattutto di natura amorosa, richiedono una cura tale da non essere sistemate in modi così rozzi. E su questo pensiero che vorrei raccontarvi una storia, ora che sono rimasto qua sfinito con una saccoccia di alimenti ed un piccolo gatto di nome Almerino che mi gironzola da qualche minuto tra le gambe, sente l’odore del formaggio e del pane caldo che mi hanno dato poco fa. Scrivo per aspettare che qualcuno passi e mi riconosca, dica “veh Remo! Cum a stet?”, aspetto un amico che pensavo fosse morto, spuntare da dietro il collegio e venirmi incontro. Ho certi pensieri per la testa che mi ronzano da quando è successa quella cosa; dei fatti così accadono perché è il mondo che si scopre di certe sue parti nascoste, mostrandole agli uomini come fossero zone intime della sua corteccia dura e impenetrabile. Bisognerebbe sentirsi fortunati ad averle viste certe cose, anche schifose…alla fine dei conti, gira e rigira le cose orribili fanno parte dello stesso contenitore dei miracoli e delle cose stupefacenti. Perché non credere che una cosa per essere stupefacente debba anche essere un po’ disgraziata, malconcia? Perché noi diamo sempre adito a questi pensieri che ci fanno credere che le cose belle stanno dalla parte del giusto mentre quelle brutte dalla parte degli sbagli? Siamo coglioni, ancora oggi? È forse questo che ci viene da pensare? Non saprei e non pretendo nemmeno domandarmelo più di tanto

La vicenda

Eravamo io che sono Remo Leoni nato a Guastalla il 23/02/1923 da una famiglia di contadini; Ferdinando Scampi figlio del noto notaio di Modena e Matteo Brighi, uno della montagna che aveva la fattoria dove si allevavano vacche e galline. Noi tre avevamo il compito di perlustrare la valle del Burloun scoperta dalle armate amiche che nel frattempo erano impegnate su altri fronti; “una terra di nessuno” si potrebbe dire anche se in realtà era terra nostra, eccome se lo era, e anche se le mitraglie non difendevano tutta la piana, quelle case le avevamo tirate su noi, i nostri nonni…e quella gente parlava il nostro dialetto. Ci si capiva bene in sostanza. Abbiamo passato circa due mesi in quella zona, ogni giorno con lo stesso giro stando attenti che non ci fossero perlustratori nascosti tra le fronde degli alberi o che sulle piccole creste nessuno ci stesse osservando con i binocoli. Non avevamo ansie particolari, venivamo da un anno di combattimenti sui monti e per un certo verso quello che stavamo facendo poteva essere scambiato come un periodo di pausa dalle bombe. Sentivamo dentro di noi che la fine stava per arrivare, i silenzi che un tempo si pagavano oro, adesso con grande lentezza si stavano riprendendo i loro spazi. Il nostro giro era semplice, ci svegliavamo la mattina alle sei, e per noi era un privilegio alzarci così tardi; gli altri che avevano da sparare si alzavano alle quattro, alle volte alle tre se dovevano spingere il nemico indietro; mentre quelli che stavano in prima linea nemmeno si svegliavano, passavano direttamente dalla veglia al sonno, quello vero. Facevamo una colazione rapida in cui parlavamo dei nostri ricordi d’infanzia, il campo a quell’ora era già sgombro e praticamente c’eravamo solo noi lì dentro; bevevamo il latte che ci veniva dato dalle stalle dei paesani. Il capitano aveva trovato e razionato una sostanza simile al caffè a base di orzo che ci veniva versata dentro al latte facendolo colorare di marrone, proprio come fosse un caffè latte. Inzuppavamo un tozzo di pane se c’era, altrimenti bevevamo con più lentezza la bevanda cercando di gustare tutto il suo sapore per bene siccome quello che mancava durante il giorno, a cui non riuscimmo mai ad abituarci, era il cibo. Per questo motivo Ferdinando che era anche un cacciatore di un certo livello, portava con sé una fionda e dei pallini di piombo per tentare di colpire qualche uccello sugli alberi o bestiole che con un paio di colpetti restavano a terra. Non si poteva sparare né creare disordine nel bosco, bisognava rispettare il suo silenzio e per farlo la fionda era il massimo che noi uomini di ricognizione potevamo usare. Qualsiasi tipo di rumore battagliero avrebbe attirato immediatamente l’attenzione dei nemici che nonostante fossero già in ritirata, si aggiravano ancora per le nostre zone.

Un giorno mentre stavamo passeggiando per i boschi ci trovammo di fronte a quello che pensavamo fosse un animale, ricordo con esattezza il punto in cui lo trovammo. C’era una fitta coltre di alberi, delle pietre muschiate ed un piccolo tronco appoggiato a terra che era sicuramente stato utilizzato come seduta per qualche passante che fermandosi decise di farsi un fuoco in quel piccolo spiazzo. Stavamo camminando da un paio d’ore e quel giorno in particolare ricordo una luce così luminosa e fresca da riempirci di entusiasmo il passeggiare tra gli alberi. Quando l’ombra di una bestia ruppe la nostra noia facendoci subito drizzare le antenne; Ferdinando che ha sempre avuto un occhio speciale ci si avvicinò e sottovoce disse che poteva essere un piccolo cerbiatto. Sia io che Matteo in quell’istante abbiamo avuto una lunga vibrazione simile a quella di una scossa lungo la schiena, ogni nostro pensiero si era immediatamente condensato in una sola parola: cibo. Si mangiava poco, alle volte pochissimo, e nonostante certi paesani ci aiutavano come potevano, sfamare settanta uomini ogni giorno in periodo di guerra era difficile anche per un’intera colonna di vacche da latte. Tirammo fuori la fionda dallo zaino di Matteo e la mettemmo sulle mani di Ferdinando come si fa per dare a qualcuno il diritto di compiere un gesto usando l’arnese migliore; gli abbiamo detto sottovoce “dat na mosa!” – datti una mossa. Ferdinando che subito sembrava esaltato dal suo ritrovamento aspettò un attimo – che rabbia! Esitò, si mise con le ginocchia piegate per vedere meglio ma gli alberi erano così tanti tra noi e la creatura che nessuno avrebbe potuto sapere con esattezza cosa fosse realmente quella bestiola. Da buon cacciatore prima di fare qualsiasi cosa attese, rallentò tutto il corpo come se volesse entrare in un altro stato cardiaco; fece qualche riflessione, disse che non sarebbe stato così facile stenderlo al primo colpo e che forse avremo dovuto rincorrerlo per almeno un paio di chilometri, se tutto andava bene ed il pallino gli centrava il collo. Ma i suoi pensieri non fecero altro che aumentarci ancora di più l’angoscia nel sapere che da un istante all’altro avremo potuto perdere quella speranza. Così accadde che Matteo spazientito prese la fionda dalle mani di Ferdinando, la caricò col pallino più grosso, prese la mira e mollò l’elastico generando il rumore di uno strappo gommoso che paralizzò ogni cosa all’istante. Plop! si sentì, come se il proiettile si fosse conficcato dentro un tessuto morbido e non tra la muraglia di legno o le pietre muschiate adiacenti. “Aglo Chapeda!” – l’ho presa! disse Matteo mentre sia io che Ferdinando rimanemmo ancora bloccati, come sopraffatti da quell’inquietudine nel sapere che avevamo fatto sul serio, che eravamo riusciti ad acciuffare un animale solo con quell’arnese ricavato da un ramo di quercia ed un elastico bello spesso. Facevamo piano, restavamo accucciati per non dare troppo all’occhio agli altri abitanti del bosco. Niente era fuggito da quel mucchio di pietre, la bestia era ancora inchiodata a quella cerniera naturale di pietre, probabilmente agonizzante siccome non riuscivamo a sentire nemmeno il suo verso di richiamo. Qualsiasi movimento dopo una breve tempesta, anche di pochi passi ma confusi, poteva essere deleterio per l’intera missione, anche un solo lamento ci avrebbe potuto consegnare nelle mani del nemico. Così ogni cosa che si fece successivamente venne fatta con una grazia quasi sacrale, evitando intercessioni di alcun tipo con il silenzio dominante. Ci separammo, Matteo a sinistra, io a destra e Ferdinando al centro; rimanemmo sullo stesso campo visivo ma con separate visuali, così si faceva quando ci si avvicinava ad un corpo andato, per evitare che la vittima con le sue ultime forze riuscisse a sparare alla rinfusa sul gruppo anziché sul singolo. Poi quando arrivammo a circa sei metri dalla creatura qualcosa ci creò scompiglio, un duro e grosso tormento che ci raggiunse prima uno e poi tutti gli altri. La creatura che si era rifugiata dietro le pietre era ancora viva, ma la cosa più sconcertante era che aveva un paio di gambe umane e non poteva assolutamente essere un animale; ecco, questo è un bel guaio! disse Ferdinando a bassa voce lasciando trasparire tutto un odio nei confronti di Matteo che sembrava incredulo nel vedere che quelle gambe si stavano ancora muovendo sul terreno. A quel punto ci siamo raggruppati stringendoci nella nostra disperazione che divenne una forma di compassione vicendevole; Matteo pensava di aver centrato uno del posto mentre Ferdinando più ottimista, credeva che fossimo riusciti a beccare un perlustratore nemico in missione.

Abbiamo aggirato la creatura cercando di arrivarci da dietro, abbiamo estratto i coltelli nel caso in cui fosse stato necessario e ci siamo attaccati alla grossa pietra con le schiene per evitare che le nostre ombre fossero visibili a quell’individuo. Ci abbiamo camminato rasenti facendo piano, pianissimo fino a quando voltando l’angolo ci siamo trovati di fronte a lei, una donna nuda, sporca con segni di ogni tipo sul corpo. Aveva capelli lunghi e rossi, una carnagione bianca piena di lentiggini ma il suo corpo era lercio, pieno di segni e cicatrici, tocchi di terra rinsecchita sulle braccia, e su tutto il corpo. Nonostante quest’anima inselvatichita il suo corpo era tutto raffinato da lineamenti nobili e belli che ci fecero eccitare subito. Alla nostra vista si ritirò rannicchiandosi come un animale spaventato, le sue gambe ora si erano ritratte per paura che il suo sesso peloso venisse esposto ai nostri occhi, le sue guance subito si arrossirono diventando dello stesso colore di qualcosa di dolce e saporito da gustare. Nel nostro spirito qualcosa ci faceva pensare che anche se non avremo mangiato, ci saremo nutriti ugualmente di quel corpo. Matteo l’aveva colpita su di un fianco e fortunatamente quel punto non avrebbe ucciso nemmeno un ghiro; si poteva vedere il buco di circa due centimetri di diametro ed un rigagnolo di sangue rosso vivo fuoriuscire e sversarsi lungo il suo corpo rimanendo attaccato alle gambe fin fino i suoi piedi, che ancorati alla terra lasciavano terminare la corsa del siero dentro il suolo umido e ombroso. Noi tutti e tre con le donne non ci sapevamo fare, avevamo imbarazzo e nessuno di noi aveva avuto esperienze di alcun tipo, seppure non facevamo altro che pensare a loro, in realtà eravamo solo degli sciagurati alla ricerca di amore. Chi se ne andava a donne era il capitano ed i suoi fedelissimi mentre la maggior parte di noi si faceva raccontare, e con solo i racconti poi faceva il resto. Matteo tirò fuori dallo zaino una piccola stuoia di cotone mezza sporca che veniva utilizzata durante le pause per stendersi a terra ed evitare che le braghe si sporcassero. Con nervoso la levò dallo zaino e gliela diede, lei la prese con rabbia e l’avvolse tutta attorno al suo corpicino; Ferdinando le si avvicinò per controllarle il corpo per intero ma lei non appena vide il soldato arrivarle vicino fece come un ghigno di rabbia, simile a quello di un animale. Questa cosa ci stupì, così io che ero lì con le mani sudaticce ed il timore che il capitano ci avrebbe fatto il culo le ho chiesto “come va? Ti abbiamo fatto male?” ma lei girò la testa per osservarmi, spalancò gli occhi per guardarmi diritto nei miei e con una voce stranamente ruvida e bassa si lasciò uscire qualcosa simile al verso di un animale “gna, ka?”. Matteo e Ferdinando non capirono così pensando che la ragazza fosse ancora scossa dal fatto; le si avvicinarono ma fu proprio in quel preciso momento che la ragazza vedendosi accerchiata dai due afferrò la gamba di Matteo e ci tirò un morso spalancando le fauci come un animale feroce, in procinto di strappare dalla preda il pezzo di carne migliore, il più grosso e saporito. I suoi capelli rossi sventolarono nell’aria come la criniera di una bestia mentre le sue mascelle si spalancarono così tanto da mostrarci una dentatura quasi inumana, quella bocca arrivò ad un punto di apertura così grande che oltre le si sarebbe scollata la mandibola; poi attaccò ed i suoi denti iniziarono a stringere così forte il polpaccio di Matteo che questi, colto da un disperato dolore cacciò un urlo sguaiato e moribondo che spazzò via immediatamente il silenzio dell’intera valle producendo echi su echi terminare in chissà quale vestibolo nemico e/o amico.

Tutti gli uccelli si levarono in volo, ci fu un bel casino, come una reazione a catena che prese dapprima i volatili e tutti gli oggetti del cielo, seguendo in seconda battuta gli animali da terra che come le pedine degli scacchi si mossero sul tavolo di caccia per cambiare posizione, modificando la tana e scegliendosi nuovi cespugli o nascondigli interrati. Ci precipitammo a staccare la ragazza da lui, ma ci accorgemmo della forza sovraumana racchiusa in quei nervi apparentemente sottili e scarni, che nascondevano un’energia proveniente da allenamenti basati su altre resistenze, più radicali e simili alla preparazione che un corpo deve avere per affrontare la natura in tutto il suo ciclo di vita. Il morso era così forte che con i denti riuscì a bucare le braghe di Matteo, raggiungendo immediatamente la carne nuda; Ferdinando mise una mano sulla bocca di Matteo per evitare che si alzasse nuovamente il disordine con il grido, lo guardò diritto negli occhi e gli disse catturando la sua attenzione “stamo zit! cal vin l’invasor!” – stai zitto che viene l’invasore. Ma dalla fronte di Matteo iniziò a scendere quel sudore di chi non riesce più a trattenere un dolore così forte, le sue mani iniziarono a tremare mentre al di sotto il pandemonio non si fermava. Non potevamo reggere per molto tempo a quella situazione, tutto si era irrimediabilmente alterato, e anche il cielo che solitamente in quelle settimane era terso e confinato ai piccoli orizzonti collinari, ora mostrava in lontananza, oltre quelle line ondulate, delle nuvole nere nere che stavano per raggiungerci minacciose.

La ragazza continuava a mordere e nello stringere il polpaccio, le sue mascelle creavano dei Crack così disturbanti che noi faticavamo ad ascoltare, non capivamo se fossero legati alle ossa di lei o alle ossa di Matteo che nella morsa mandibolare si stavano spezzando. Io feci il possibile, mi avvicinai al corpo della donna, cercai di strattonarla e di spostarla in ogni modo ma non riuscì ad ottenere niente…son sempre stato una mezza cartuccia nelle questioni muscolari, il mio corpo è disabituato alle soluzioni forzute o forse non ho mai sviluppato i miei muscoli come certi uomini. Al campo a me, mi facevano sempre tenere gli occhi aperti per camminare con la testa alta e osservare eventuali stranezze, niente di più, i lavori di forza li facevano fare agli altri ma non a me. Ferdinando mi disse “ficcale qualcosa dentro la ferita, si sposterà dal male!” e così feci con la punta del coltello, spinsi un poco per tentare di intercettare il pallino con la punta della lama e farlo entrare meglio, ma quel mio gesto la fece incazzare solo di più accanendo gli occhi di un colore assatanato, incline alla distruzione di ogni cosa che le capitava tra le mani.

Ferdinando staccò la mano dalla bocca di Matteo e strinse i capelli rossi e lunghi della ragazza la quale ora, si bloccò in un modo anomalo; quello poteva essere il suo punto debole, quello poteva essere il nostro punto di ancoraggio. Avvolse i suoi capelli sulle sue mani roteando il polso fino a quando l’intera ciocca non arrivò al cuoio cappelluto, poi si avvicinò un poco al volto inchiodato ancora alla gamba tremolante e disse “adesso molli la gamba o ti strappo questi capelli dalla testa”, la ragazza che non dava l’idea di aver capito il perfetto significato di quei vocaboli reagì secondo un suo istinto primordiale a quelle vocali basse, dette con la sottigliezza di chi è pronto a porre la parola fine a qualsiasi contrarietà. I suoi occhi si rispensero diventando nuovamente di colore marrone, anche il volto sembrò riassorbire una muscolatura che sembrava simile a quella di una bestia inferocita ridando a lei quei tratti di donna. Non appena spalancò le fauci Matteo scivolò fuori dal cerchio che la ragazza aveva creato con le mani e le gambe impazzite; si gettò distante metri come per scampare ad una granata inesplosa. Si trascinò senza nemmeno tener conto del fatto che noialtri eravamo lì assieme a lui e che la ragazza era sotto il controllo di Ferdinando. Continuò a trascinarsi per altri cinque metri poi si fermò, rimase disteso come sopraffatto da un dolore ingestibile; quella gamba già da lontano sembrava essere ridotta proprio male e sia io che Ferdinando a guardarla rimanemmo storditi, incapaci di capire cosa stesse accadendo. Poi mettendosi le mani sulla fronte, ancora disteso a terra con la faccia nella terra si mise a piangere come un bambino, trattenendo il più possibile la voce, evitando che certi suoni fuoriuscissero dalla gola ingolfata di sofferenze. Io lo raggiunsi e tirandolo su in piedi lo presi sotto braccio e lo misi su di una pietra facendolo sedere, prestando attenzione alla gamba lacerata; ero pronto a controllare la ferita per medicarla come meglio mi era possibile.

Non giravamo con molte medicine, nel nostro comparto non ci venivano date siccome la nostra missione appariva così innocua e priva di pericoli che nemmeno il dottore che ci forniva i medicamenti contava le nostre teste tra il gruppo dei combattenti. Aprì la bisaccia e tirai fuori delle bende arrabattate alla meglio, le avevo recuperate da un corpo trovato nei pressi del rifugio Condrighi; ricordo ancora che erano di un soldato amico ucciso con un colpo diritto alla testa. Il suo volto grigiognolo era così dolcemente disteso che nemmeno i vermi gli si erano formati, forse l’aria del posto gli aveva risparmiato l’incline sofferenza delle carni senza vita, rispettando così una sorta di pace conquistata a fatica. Le cose che teneva dentro il suo cappotto di lana cotta e la sua borsa da montagna erano ancora intatte come se il buon dio le avesse conservate per qualcuno che come me, andava cercando un po’ di salvezza tra i meandri sperduti del bosco dei Poggioni.

Ero contento di usarle quelle bende ma non sapevo bene come, Matteo mi guardava mentre cercavo di prendere bene le misure per fasciare il più stretto possibile quel punto. Facevo fatica a guardargli il polpaccio, sembrava fosse stato sbranato da un lupo, in certi punti gli strattonamenti gli avevano creato delle lacerazioni così profonde che gli si vedeva la fibra muscolare; sempre in quei punti il sangue scendeva così delicatamente e con insistenza da inzuppare quel che rimaneva dei pantaloni e gli scarponi. Aveva così tanti buchi che non sarebbe stato facile per nessuno medicare una ferita di quell’ampiezza con una sola garza di cinque metri massimo. Ma non sarebbe stato facile nemmeno per i medici del campo, che spesse volte si lagnavano per delle escoriazioni ben più leggere di questa. La verità è che in queste condizioni, in cui tutto è centellinato e i veri ospedali son distanti chilometri e chilometri, bisogna fare tanto affidamento al proprio corpo, ci vuole del culo sperando che mamma ci abbia fatto con i giusti connotati; bisogna sperare che sia il corpo a resistere, a metterci del suo, a completare l’operazione di guarigione.

Nel frattempo che io tentavo la medicazione, Ferdinando si mise davanti alla ragazza che ora si era sistemata in una posizione strana, accucciata in disparte nel tentativo di restare distante dai raggi solari e dai nostri occhi. Eravamo noi a farle paura secondo il suo modo di atteggiarsi. La sua bocca era ricoperta di sangue e ricordo, lo ricordo nitidamente, che anche solo guardarla in quella condizione mi creava un certo senso di angoscia mista a compassione. Com’era possibile che una donna fosse spuntata dal nulla in quelle condizioni? Era forse uno scherzo della natura? Da dove veniva? Così mentre cercavo di fare piano sulla gamba di Matteo chiesi a Ferdinando “beh ma da dove viene questa qua?” e lui che non mollava un istante lo sguardo dalla rossa si girò giusto per guardarmi e rispondermi “non saprei Remo, lascia perdere…fai in fretta, abbiamo fatto rumore, dobbiamo rientrare”. Matteo non riusciva più a trattenere dal suo gozzo un altro grido di passione mentre gli stavo arrotolando sulla gamba la garza, così gli diedi un panno secco usato per asciugare i pentolini da campo, glielo arrotolai e lui se lo mise in bocca. Tirò un forte grido che venne attutito in parte dallo strofinaccio, qualche altro animale lì vicino a noi si mosse nuovamente per spostarsi verso un altro nascondiglio, anche se questa volta il risultato fu decisamente più soddisfacente per tutti. Brev! gli dissi mentre la sua faccia si era gonfiata come un palloncino. La donna osservando il nostro compagno intento nel gridare all’interno del panno piegò la testa come fosse stranita da quel gesto, sembrava non aver mai visto un essere umano gridare prima d’ora. Usai un bastone per steccargli il polpaccio quando arrivai alle ultime due mandate, Ferdinando disse che non ce n’era bisogno, ma io lo feci ugualmente. Arrivati al punto, arrivati alla fine dell’episodio, noi tutti ci guardammo come storditi da quello che era successo; eravamo sfiniti, sudati e puzzolenti, l’odore del sangue gironzolava tra le pietre facendoci sentire inadatti a quel posto che per mesi pensavamo così docile e mansueto, rispetto a certi campi pelati dalle camminate con gli scarponi, su cui si potevano ancora scorgere le sgommate di chi era stato centrato dalle pallottole nemiche. Ma soprattutto in noi penzolava la domanda “cosa ne facciamo della donna?” pur non essendoci consultati apertamente. Ci fu un attimo di imbarazzo, era pur sempre una donna per noi maschi, e questo fatto ci faceva pensare liberamente al fatto che in quelle condizioni sarebbe morta nel giro di qualche ora. Ma la verità era che nessuno di noi aveva ancora avuto il coraggio di parlarle perché noi tutti e tre avevamo di fronte a noi un essere che veniva da chissà quale posto sperduto del mondo. L’aria si fece pesante, l’umidità generò odori che si accumularono a quelli che c’erano già prima, e le nuvole che poco prima erano oltre le cocuzze delle colline, ora si trovavano proprio sopra le nostre teste; e proprio sopra le nostre teste quando notammo il cuore cupo di quelle formazioni, iniziò a piovere con un getto improvviso di acqua come versata dal cielo con un secchio per lavarci via di dosso questioni umane, fin troppo umane anche per la terra stessa. Matteo che rimase distante almeno cinque metri da quel corpo femminile d’un tratto si rimise in cammino per rientrare al campo, non ci disse niente, lasciò fare alla pioggia che cascava così forte da farci male alle teste. Io lo richiamai con un fischio tenuto sotto controllo dalle labbra, lo rifeci un paio di volte ma lui fece spallucce, scivolò dentro le profondità della natura e se la svignò così, con dei passi azzoppati e mascherati dal rumore della pioggia che picchiava sulle foglie.

Eravamo rimasti io, Ferdinando e la ragazza ferita; già perché in tutto questo accadimento lei non smise di sanguinare nemmeno per un istante. Probabilmente Matteo le aveva centrato una vena o qualcosa di più pericoloso; quel sangue le aveva creato una macchia scura simile ad un ematoma ma che si stava allargando in maniera preoccupante. I miei occhi erano stanchi e la pioggia non aiutava nessuno di noialtri, la ragazza non si muoveva e la stuoia che aveva sopra le spalle le scivolava di dosso senza che lei ci tenesse conto. “copriti” le dissi ma lei mi guardò nuovamente piegando la testa come se le mie parole fossero estranee per lei, non reagì al mio comando. Ferdinando le andò vicino mettendo le mani davanti, si sollevò un po’ le maniche per mostrarle che le sue mani e le sue braccia erano nude e non avevano alcuna intenzione di farle del male. Arrivato nuovamente accanto a lei la osservò da più vicino rimanendo fermo e lasciando che i suoi occhi marroni arrivassero al nocciolo della questione, ma nulla. Lei allungando il naso tentò di snasare l’odore che il buon Ferdinando si portava dentro. Un odore di spari e ascelle, di braghe sfinite e camice ripulite dalle correnti dei fiumi, amplificate dalla pioggia che portava a galla puzzi più antichi. “tu non mi capisci, vero? sei italiana? Et mudnes?” ma niente. Dall’altro lato lei continuò a guardarlo rimanendo impassibile di fronte alle domande, i suoi occhi erano incollati alla forma dell’uomo, ai colori verdognoli della camicia. Mi avvicinai a Ferdinando e gli parlai tenendo le parole nascoste dalle labbra per il timore che lei stesse mentendo a noi tutti e ci volesse far fare la festa dai nemici.

 

–        Ma cosa ne facciamo adesso? Non ci capisce la signorina…Forse è di un’altra nazione?

–        Non è straniera, questa viene da questo posto, ma non dal paese…qua in questo paese “i chàcaren in mudnès! – parlano in modenese

–        E se ci stesse mentendo? Se fosse tutta una finta per mettercela in culo?

–        Non mente, ha la bocca sporca di sangue, nemmeno una bestia si lascia rinsecchire quello schifo sulla faccia…la vedi? Sembra un animale, è una donna primitiva secondo me

–        Come una donna primitiva, com’è possibile?

–        Guarda bene, è nuda, non appena si è sentita attaccata cos’ha fatto? si è difesa prendendo la gamba di Matteo come fosse la zampa di un cinghiale. Questa mi dà l’idea che mangi roba in questo modo, ti sembra una che si cucina i tortellini, questa?

Feci una piccola risata e su quella mia smorfia la signorina mi seguì imitandomi e mettendo fuori un po’ la lingua come segno di buffonaggine verso di me. Mi spostai un poco, salì sopra una pietra per vedere tra quanto sarebbe venuta la sera e mi accorsi che non avevamo più di due ore ancora, dopodiché saremo dovuti rientrare o il capitano ci avrebbe tirato due sberle da farci restare imbronciati per almeno una settimana, pulendo i cessi e mangiando i rimasugli degli altri. Le mani di Gilberto Guareschi erano conosciute da noi tutti, quello nemmeno sparava, usava le mani direttamente; aveva due patacche così grandi che noi solo a vederle ci veniva male alla faccia. Quel suo modo di parlare ci faceva piegare il collo come fossimo degli aironi, eravamo spaventati ma d’altronde lui aveva sull’anima il peso dell’intera brigata, e si sa che quando qualcuno ha da pensare a tante teste non se la può prendere con calma. La ragazza provò a spostare la gamba ma nel farlo fece un’espressione di dolore, le faceva male il punto in cui era stata colpita e probabilmente adesso la questione si faceva più seria. Il colore del sangue pareva via via sempre più scuro “è un illusione” dicevo dentro di me anche se lo stesso Ferdinando continuava a dire che non avevamo molto tempo a disposizione per salvare il culo della ragazza e anche il nostro. Questa fretta mi riempì la testa di cose folli e di altre cianfrusaglie, non riuscivo più a connettere, “cos’è questa roba? Noi abbiamo da andare per i colli e cercare gli invasori, in che diavolo di situazione ci siamo infilati?”. Cercai di avvicinarmi a lei per controllarle la ferita ma questa volta il suo corpo – non appena vide il mio piede avvicinarsi a lei, si spostò tutto assieme in un altro lato della roccia facendomi schizzare indietro per paura di prendermi anche io un morso come quello di Matteo. Ferdinando anche lui accortosi dello scatto recuperò un bastone da terra puntandolo diritto contro di lei, la ragazza si coprì con le braccia per paura di essere colpita, Ferdinando bestemmiò aspettando che la situazione tornasse sotto controllo, bestemmiò almeno quattro volte dietro fila mentre gli sventolava il bastone davanti. Qualche minuto dopo, mentre lei si era nuovamente accucciata in posizione fetale per tentare di riposare mantenendo la smorfia di dolore sul volto, io e Ferdinando ci appartammo in un angolo per darci le ultime dritte

 

–        Ha paura che le facciamo del male, dovremo cercare di farle capire che non vogliamo

–        E come fai Remo? Ti sei reso conto che non c’è modo di parlare a questa qui?

–        Allora se non ci capisce noi facciamo ugualmente qualcosa per quella ferita, bisogna togliergli il pallino dal fianco e ricucire. Se la lasciamo qua così questa muore, e a te va di andartene via con una donna morta qua?

–        Certo che no, ma non so cosa farci, se torniamo al campo e ne parliamo al capitano quello ci lincia…sai come la pensa lui, riguardo a queste cose…e anche riguardo alle donne…sai cosa ci dice sempre?

–        Si, ma non si può far così…qua adesso siamo me e te, e se dobbiamo far qualcosa la facciamo me e te, se la lasciamo qua stasera l’abbiamo nella testa me e te, mica il capitano o chi altro…

–        Dimentichi Matteo…chissà cosa racconterà?

–        Matteo non dirà niente…quelli della montagna come lui se ne stanno zitti su queste faccende, vanno dritti come dei muli. Se a quello domani gli danno un fucile è buono di tirare due schioppettate diritte al culo di un invasore come un cecchino.

–        Facciamo che la prendiamo all’improvviso, la copriamo con uno zaino e uno la tiene ferma, mentre l’altro le toglie il pallino dal fianco e le dà i punti.

–        L’idea non è male, certo che tenere stretta quella donna sarà dura. Se quella ci scappa ci uccide tutti e due, hai visto come ha tenuto stretta la gamba di Matteo, quella non la mollava neanche con una vangata in testa…quella stringeva, gli hai visto per bene quei nervi?

–        È nervosa, lo è molto…ma facciamo almeno questo, poi ce ne torniamo al campo e stanotte ci facciamo una bella dormita. Abbiamo un’oretta di tempo, non di più. Di più rischiamo grosso

 

Andò così, più o meno. Dopo esserci intesi, tirammo fuori dalla mia borsa tutte le cose: dagli acciarini ai rametti, fiaschette per l’acqua, piccoli giornaletti di fumetti che mi portavo dietro per i momenti di pausa. Poi Ferdinando decise di assumere il ruolo di quello che teneva stretta la donna, si tolse la camicia mentre l’acqua scrosciava come un fiume verticale, la piegò nonostante tutto come ci avevano insegnato riponendola dentro la sua bisaccia con cura, “sei più vulnerabile così?” gli dissi ma lui replicò che per fare da morsa aveva bisogno di fare pelle contro pelle se no sui tessuti bagnati gli sarebbe scappata la donna dalle braccia. Va bene, ci siamo diretti verso di lei che apparentemente sembrava tranquilla, aveva gli occhi socchiusi anche se era evidente che stesse utilizzando dei sensi che le permettevano di restare all’erta, i capelli erano tutti distesi come se anche loro stavano sognando adagiati uno ad uno sul terreno inzuppato di sangue e acqua. Alzammo ancora di più i nostri stivali e ci mettemmo in punta di piedi, come due furfanti che la stanno per fare grossa, mettendoci impegno; uno da un lato e l’altro dall’altro. Piano piano ci siamo avvicinati pronti per attaccarla da ambo i lati, e quando abbiamo visto di essere in una posizione buona ci siamo dati il segnale con un “cra cra”. A quel punto Ferdinando è scattato ma il terreno era così scivoloso che il suo balzo si è reso disastroso, facendolo scivolare addosso alla ragazza con tutto il peso; subito lei spalancando gli occhi si spostò di qualche centimetro lasciando libera la sua testa dal sacco, si dimenò un poco liberandosi le braccia che erano ancora schiacciate sotto il corpo di Ferdinando, che nonostante tutto aveva una corporatura bella sostanziosa. Gli occhi di lei presero vita, ma una vita oltre la vita, si riempirono di sangue fino a schizzare quasi fuori dal suo viso, roteò la testa per scivolare ancora un poco più indietro,  spalancò la bocca e con un morso chirurgico riuscì a prendere in bocca il dito di Ferdinando che ancora non accortosi dell’accaduto stava cercando di infilarle il sacco in testa; ma io che non mi ero piombato su di lei riuscì a vedere quelle mandibole agguantare l’arto, stringere e farlo sempre più forte fino a tranciare di netto l’indice della mano. “Puh” sputandolo diritto verso di me, mentre tutto era ancora in divenire, chiassoso, sporco, lercio, bagnato. Io che son rimasto per un istante paralizzato mi son tirato uno scappellotto in testa e anziché mettergli le mani sulla ferita mi son messo sulle sue gambe per evitare che con quei movimenti di bestia Ferdinando venisse morso in un punto più letale. La ragazza si dimenava in un modo così selvatico e incontrollato che in quella frenesia mi è salito un senso di morte così profondo e incontrollato, da voler mollare la presa e lasciare che tutto accadesse secondo delle leggi che nemmeno io avrei potuto contrastare. Ferdinando che sembrava non essersi accorto dell’amputazione ha iniziato a colpirla sul collo con il gomito, le ha tirato delle botte così forti che ad un certo punto la ragazza è stata costretta a lasciare la presa sul sacco. Ecco che la bisaccia era libera e lui che l’aveva ancora tra le mani riuscì ad infilargliela diritta in testa stringendo forte in prossimità della base per evitare che con un po’ di forza riuscisse a sgattaiolare fuori. Nel mentre sono riuscito a fermarle la mano che cercava in ogni modo di graffiarci e pizzicare oltremodo qualsiasi cosa di carnale trovava sui suoi polpastrelli stranamente grandi e piatti, simili a quelli di un geco.

 

–        Muoviti Remo! Tirale via il pallino e non cucire un cazzo!

 

Così mi son mosso ed ho preso il mio coltello svizzero, abbiamo girato di lato la ragazza e con un colpo diritto verso la schiena l’abbiamo bloccata nel punto perfetto per la mia medicazione. Senza pensarci ho infilato la lama dentro la ferita, lei si è mossa come se gli avessi dato una scossa di dolore, lo ha fatto con una robustezza tale da farci balzare un po’ in alto sia me che Ferdinando. Ma poi mentre stavo infilando ancora di più la lama al suo interno, ecco che in lei qualcosa cambiò; il suo corpo si sciolse come se di colpo i suoi pensieri le avessero comunicato la nostra buona volontà nel curarla. La mia impressione fu quella che lei ebbe percepito da parte nostra l’aiuto. Si paralizzò completamente di colpo quasi come se si fosse imbarazzata nell’essere stata così sfacciata e aggressiva; lasciò farmi fare tutto senza muovere nemmeno il tronco dal dolore che inevitabilmente le causai mentre il coltello entrava dentro la carne. Ravanai ancora un po’ fino a quando sentì la resistenza dura del pallino. Feci un po’ di leva ma nel farlo uscì ancora più sangue di colore scuro, quasi nero; stavo divaricando la ferita. Ferdinando che ora sembrava più tranquillo si guardò la mano e si accorse di non avercelo più il dito, si girò verso di me e con un volto pallido, ma così pallido mi disse

 

–        A mla magnè – Me l’ha mangiato

 

mostrandomi il moncherino impregnato di sangue. Gli dissi di stare tranquillo, che avremo risolto, ma lui si fece prendere dal panico facendosi uscire dalla bocca dei “bah” “uh” “craz”; poi iniziò a respirare con tutto il busto, impallidendo ancora di più fino al punto da diventare come un fantasma a petto nudo…era tutto un bagno di liquidi e bestemmie; una smitragliata e due colpi di cannone non erano niente a confronto. Eravamo mezzi moribondi sotto una pioggia impossibile, che mai nella mia vita avevo incontrato; una donna selvaggia piovuta dal cielo o direttamente fatta riemergere dall’inferno che aveva mezzo ammazzato i miei due compagni; chissà cosa ci fece continuare, intendo cosa non accadde perché tutto finisse lì in quel momento.

Ci eravamo messi in un bel guaio, proprio lì, accanto agli uccellini. Distanti dalle bombe, lì. Ma io non mollai il mio compito, quello per cui s’era generato questo baccano; tirai un colpo forte con il coltello e feci schizzare il pallino fuori dal buco, “aglò caveda!” – ce l’ho fatta! dissi ma Ferdinando mi interruppe “che me al mor! me al moooooorrrr! turnom a cà!” – che io muoio, muoio!!! torniamo a casa! Così Ferdinando si alzò elettrizzato dal dolore mentre lei non si mosse nemmeno quando sentì il corpo liberarsi prima dal peso ingombrante di lui e poi dal mio. Rimase con il sacco chiuso in testa in quella posizione, il suo respiro lento, il sangue che le scorreva forse più velocemente di prima. Ferdinando cacciò un primo urlo tutto trattenuto dentro le cavità del naso, gli uscì il verso simile a quello di un orso, poi subito dopo espresse tutto chiudendosi la bocca con le mani. Si liberò come di una pisciata incontenibile, fece sbalzare ogni cosa dal suo posto. Ben peggio che Matteo pensai, questa è la fine. L’urlo si propagò in chissà quali posti remoti, oltre la collina, arrivò diritto alle orecchie del nemico. Poi lo ripeté ma questa volta lagnò in mezzo, si fece cadere dal naso un mucchio di catarro stagnante che si mischiò al sangue e al dito. Io mi lasciai lì seduto con le gambe aperte ed ogni cosa che mi entrava nel culo fradicio, la pioggia lentamente si dileguò e dal cielo comparve un sottile strato di leggerezza mischiato ad una foschia primaverile, segno che il bosco stava iniziando a respirare la frescura. Mi avvicinai a lui ma non ci fu modo di parlargli, aveva così male che d’un tratto come Matteo schizzò verso il bosco, correndo come un pazzo verso il campo. Io rimasi lì, non mi venne nemmeno da muovermi, avevo tutto in testa accumulato come una parabola biblica scritta per insegnare agli uomini la crudezza della vita. La ragazza era ancora lì a terra con il volto coperto dalla borsa mentre io mi resi conto in quell’istante del silenzio, del peso indecifrabile del silenzio che come un compagno antipatico mi si era rimesso accanto, mantenendo la sua sterile faccia da cretino. Quasi faceva paura quel momento, eppure dopo aver ripreso fiato, mi asciugai un poco il viso con le maniche spolte della camicia, tornai a infilarmi le dita nelle orecchie come un tempo e a pensare che in un qualche posto qualcuno a quell’ora stava preparando una zuppa coi fagioli e la salsiccia davvero ottima. Aspettai ancora un poco osservando la ragazza che sembrava svenuta anche se detta onestamente, non mi interessava nemmeno più in che condizioni fosse. Alzai il mio corpo appesantito dalla fanghiglia e dall’acqua infilata dentro i tasconi dei pantaloni; mi accorsi che se allungavo un poco l’orecchio potevo rendermi conto che la vita continuava ad esserci nelle sue forme più elementari…i rumori delle goccioline di pioggia che cadevano ancora dai rami, qualche verso di uccello che in lontananza segnalava la propria posizione ai suoi simili. Anche gli odori tornarono al loro posto, con calma ripresi a sentire il profumo della terra e della pioggia; mentre mi allacciavo la camicia che si era sbottonata potevo rendermi conto della mia posizione e di quello che era accaduto prima del fattaccio. Sul terreno restavano le impronte di una battaglia con almeno cento uomini, mille anime tutte raggomitolate in uno spazio grande quanto quello di una camera da letto. Guardai la donna ma non mi avvicinai, avrei voluto riavvolgere il nastro e sapere che tutto quello che ci era accaduto era una stupida pagliacciata, avrei preferito sapere che lei come una spia infiltrata nel nostro territorio, utilizzò tutti i suoi espedienti per farci fuori a mani nude.

Tornai al campo camminando con lentezza, mi feci prendere dalla stanchezza e da nient’altro; la testa mi penzolava come un grosso testicolo dal collo, ero stremato e non vedevo l’ora di gettarmi sulla branda. Ripresi il cammino e quando mi accorsi che mancava poco al mio rientro mi fermai, la guerra era finita, la mia guerra era terminata; non avrei più sparato un colpo a nessuno, avevo imparato la lezione. I miei occhi sembravano essersi affogati dentro un qualcosa di indicibile, non ci saprei mica ritornare a quelle memorie ora! Mi fermai e lasciai arrivare il tramonto, mi sedetti in un punto buono per vedere scendere il sole; era un incantesimo quell’immagine, dopo tutto l’armamentario viscerale trovarsi di fronte alla semplicità dei fatti mi fece fare un piccolo sussulto dentro il cuore, la poesia era seduta davanti a me nel punto più lontano possibile che i miei occhi riuscivano a scorgere, mi fissava con l’amore di una madre, mi scaldava un poco facendomi asciugare la fronte da ogni confusione. Ero tornato a vivere a modo mio, con il sole ed il cielo al mio fianco; mi guardai le mani e stranamente le vidi ripulite, come se niente fosse accaduto. Ci sputai sopra per sfregar via solo un po’ di fanghiglia infilata sotto le unghie, usai per bene il mio coltellino togliendo tutto lo sporco. Anche i miei vestiti si erano asciugati ed erano tornati ad essere intrisi di quel puzzo da campo a cui oramai ci avevo fatto l’abitudine. Sbadigliai un paio di volte, mi ero svegliato o forse non ero che uno dei tanti soldati feriti nel profondo, in grado di generare mostri e animali fantastici nei propri sogni. Mi sentivo felice, avrei subito la punizione per essere rientrato tardi, non sapevo nemmeno cosa mi avrebbero riportato gli altri riguardo i racconti di Matteo e Ferdinando.

Nessuno di loro due ebbe il coraggio di dire che era stata una donna…Tutto sembrava non aver alterato minimamente la condizione dei due compagni; non li vidi più ma per ragioni tecniche legate agli spostamenti di personale verso altri piccoli reggimenti. Non c’era tempo per ascoltare le mie lagne, noi saremo dovuti ripartire il giorno dopo siccome qualche informatore ci aveva segnalato il movimento del nemico proprio verso la nostra posizione. Le grida, le grida! Son quelle che ci hanno tolto l’incantesimo… La poesia se ne sarebbe tornata a cuccia per ancora qualche tempo! Lavorammo tutta la notte sotto le luci basse, in un paio di ore avevamo rimesso il campo intero dentro i nostri zaini, a parte il mio che con ogni probabilità se ne stava ancora sulla testa di quella ragazza dai capelli rossi. Di lì a poco la guerra sarebbe finita ed io al mio rientro in città mi sarei accorto di aver vissuto tutta un’altra storia rispetto quella di queste macerie. Non sparai più un colpo, fine.

 

 

 

 

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