Piccola storia impossibile di ladri, stradoni e fatti inconcludenti
Rubrica di Francesco Menozzi
Racconto pubblicato il 13/12/2022
Ogni volta che raccontiamo una storia ci sentiamo portatori di una testimonianza di vita, che sia la nostra o quella di qualcun altro o che sia una storia mai accaduta, inventata; la vicenda detta come va detta, riguarda noi tutti esseri “urlanti”. (F. Menozzi)
Chiunque può partecipare alla rubrica inviandomi disegni, opere, fotografie da inserire all’interno dei singoli episodi per commentare con un’immagine o un’idea quello che la storia gli ha ispirato. Potete inviare il materiale alla mia mail francescomenozzi55@gmail.com . Sarà mia premura inserire il materiale e citare la fonte.
Ecco l’elenco di tutti i racconti di Francesco Menozzi che abbiamo pubblicato nella nostra rivista:
- La prima notte a Modena
- Un sottile filo rosso
- La ragazza carmina
- Anche Dio ha le sue ragioni che non vanno sottovalutate
- L’uovo della discordia
Buona lettura.
Non è facile trovare l’agenda delle ore, bisogna faticare perché non tutte le cartolibrerie hanno quel genere di oggetti. Sono agende in cui ogni giorno viene suddiviso in ventiquattr’ore, una pagina ad ora per un totale di ottomila settecento trentasei pagine in un anno. Su di ogni pagina vengono divisi gli orari con delle linee che frazionano i singoli minuti, il tutto è estremamente preciso. Li produce una ditta austriaca che utilizza una bella carta raffinata, corposa, ragione per cui l’oggetto di per sé arriva a pesare circa quattordici chili. Le dimensioni sono di circa settanta centimetri di lunghezza per quaranta di larghezza, mentre per lo spessore non si va oltre i trenta centimetri. Questo genere di cancelleria può essere utilizzato nel documentare per filo e per segno cosa accade ogni ora nell’arco dell’intera giornata; mi verrebbe da pensare al libro che si trova nella reception di qualche hotel con una mole incredibile di ingressi e check-out, ma se lo guardo, è ben più pesante e ingombrante rispetto a quello che mi vedo nella mia testa. A dire la verità penso di essere l’unico che utilizza un oggetto di questo tipo, non conosco proprio nessuno che ne ha uno; e io ne ho accumulati sette a dir la verità, tutti sistemati nello scantinato su di un’impalcatura costruita dal mio amico Roberto, con delle travi di ciliegio recuperate da un letto rotto.
Una volta quando entrai in una sala operativa di una stazione dei treni, trovai accanto al capostazione un librone gigante, tutto rotto con una copertina in pelle nera che sembrava quella di un libro-firme che si usa ai funerali. Eppure, nonostante tutto, anche quel librone non era come la mia agenda delle ore. Ora vi chiederete cosa ci faccio con l’agenda delle ore? Ebbene ci scrivo tutti i passaggi di Ivano davanti casa mia.
Noi abitiamo in un piccolo borgo, saranno dieci case, distribuite all’interno di una strada lunga circa duecento metri. C’è una croce di cemento poco prima di entrare all’interno del nostro piccolo comparto, la croce divide lo stradone dalla nostra stradina. Le case sono ancora le stesse di quasi cento anni fa, forse hanno anche più di cento anni certune; nessuno ci ha mai messo le mani, nessuna ristrutturazione e nessun intervento ne hanno alterato l’aspetto. Ogni cosa qui va lasciata in pace, non la si tocca più d’una volta, e se si rompe la si aggiusta ma non la si cambia, e se si rompe definitivamente la si lascia così e non la si getta. Qualche sedia se ne sta appoggiata senza una gamba dentro il porticato di una casa, dei vasi di fiori crepati son lasciati stare a morire nei giardinetti dietro le nostre casette. Se qualcuno dovesse rompere un frigorifero – io penso – nel giro di qualche giorno lo si troverebbe disteso nel praticello con l’antina staccata, forse utilizzato come rifugio per le galline infreddolite. Dovete capire che ogni posticino ha le sue regole – dove non c’è quel rigore di certi regolamenti comunali – le persone fanno come meglio credono, s’inventano di tutto per vivere nel minimo indispensabile, è una questione di sottrazione questa qua, mica di abbondanza; c’è anche della dignità nel saper togliere.
E anche gli odori devono essere i soliti: quelli del garage ammuffito, quelli della cacca del cane gigante che ogni mattina deposita il suo siluro davanti il mio uscio, quelli della terra e della pioggia anche quando non piove. C’è tutto un armamentario di ingredienti che tiene in piedi il borgo e lo fa andare avanti per la sua strada lenta e nebulosa, lontanissima dalle vicende della città.
Ivano abita con la sua famiglia verso la fine della via, a confine con la strada che unisce il nostro posticino con il mondo intero; è un buon lavoratore, deve avere circa cinquant’anni e ha sempre vissuto qua, in questo sito da quando è nato. Ci ha portato la moglie, ci ha fatto una figlia, ci ha costruito il suo piccolo impero tra questi coppi sbeccati. Tutti i suoi parenti hanno abitato in quella casa e ci son morti, e così sembra che a lui non interessi niente del mondo là fuori, perché ha da onorare questo impegno genetico.
Veste bene con maglioncini trattati con l’ammorbidente, ha pantaloni sempre ben stirati di marche buone e costose secondo me. Si taglia i capelli il giusto, li tiene fatti a dovere, come se avesse un’immagine stampata nella mente di come dev’essere la sua faccia per tutta la vita. Cammina spedito e guarda pure poco attorno, i suoi occhi piccoli e marroni non sembrano cercare problemi, spesso lo si può vedere assorto in un pensiero soddisfacente, che se ne va in giro sorridente per la via.
Il nostro è un rapporto buono, non ci siamo mai litigati. Tutto è partito con dei semplici favori “ti do una mano a portare dentro quella busta pesante” o “lascia stare, ti faccio arrivare la legna da un amico che la consegna a me proprio domani”, piccoli favori che inizialmente vedevo come gesti di amicizia tra vicini, nulla di più. Poi nella vita io ho scelto di andarmene da quel posto, e nonostante i mille ricordi piacevoli e le belle fumate al tramonto nel mio giardinetto, io ho scelto la città per cambiare direzione. Ho fatto un bel salto, un bel botto: dal niente al tutto, dallo zero a cento, dai silenzi alle musiche, ai rumori, alle scorribande di motori e biciclette. Così, il tutto a seguito di certi cambiamenti.
Ho vissuto in città ed ho imparato i ritmi diversi, ho imparato a fare la differenziata in un altro modo, ho sperimentato nuove forme di pulito e ordine, ci ho dato sotto insomma. Non mi sono lasciato prendere dalla disperazione, quello mai; che potrebbe anche essere un sintomo legato a certi cambiamenti così repentini e shoccanti, ma io non l’ho fatto. Mi son messo in testa che in quell’appartamento avrei costruito altro, del nuovo, e da lì son partito. E in città mi son trovato un bell’appartamento, e lì ci son stato per qualche anno. Poi ecco che son dovuto tornare in quella casa nel borgo; ad un certo punto a seguito di un ulteriore cambio di rotta ecco che il mio andare si è riposizionato al punto di partenza. Ma questa volta era diverso, avevo conosciuto per bene certe regole della città e sapevo come occupare le mie giornate nei modi più incredibili: ho iniziato ad aggiustare biciclette, a fare del pane da rivendere a certi circoletti di provincia, ho imparato a suonare così bene la chitarra che dopo qualche anno riuscivo a suonare senza alcun errore delle piccole partiture di musica classica. Nelle mie giornate c’era tutto un impegno che si accavallava ad altri impegni, e questo rendeva il mio posto assolutamente diverso da prima. Io penso che Ivano se ne sia reso conto, e fu proprio in quel momento di scambio dalla vecchia vita, alla nuova, che arrivò il suo tormento.
Iniziò con dei semplici saluti quando la mattina ci si incrociava poco prima di prendere ognuno la propria strada; dei veloci “ciao” “ciao” e poi un niente, tutto vaporizzato tra le mura delle casette. Poi ecco che al mio rientro da lavoro, verso le una e trena, lo ritrovavo esattamente nello stesso punto della mattina, come fosse stato lì fermo ad attendere il mio rientro. Mi veniva vicino quando ancora ero dentro la macchina e mi alzava la mano, poi subito rincarava la dose dicendomi – mentre aprivo la portiera – “andata bene a lavoro?” e io non ci facevo caso così tanto perché a quelle domande io mi ero abituato in città, quando quelli del condominio mi dicevano le stesse cose durante il giorno. Ma la cosa iniziò a preoccuparmi quando i “buongiorno” si moltiplicarono; iniziò a salutarmi sia quando uscivo per andare alla macchina, che quando messo in moto facevo retromarcia. Non penso di sapere quando scattò in lui questa scintilla, ma mi ricordo che certe volte, soprattutto d’inverno, io quando lo vedevo lì attendente, mentre aspettava che mi mettessi in marcia, pensavo dentro di me “ma sembra un po’ scemo”. Poi anche quando di pomeriggio me ne andavo in giardino per sistemare un po’ gli alberi, lo vedevo che sbucava da dietro la parete e mi alzava la mano, non diceva niente ma notavo che i suoi occhi erano speranzosi, mi guardavano come un cane bastonato che aveva bisogno della sua razione d’affetto quotidiana. Per quel motivo mi lasciavo intenerire, pensavo che un uomo che avesse così poche ambizioni nella vita, ad un certo punto, avrebbe tentato il suicidio. E questo pensiero mi si conficcò nella testa facendomi avvicinare a lui nel tentativo inizialmente di capire; volevo capire se queste mie deduzioni potevano avere qualche fondamento o erano semplicemente delle illusioni, delle cose della mente e basta. La sera, quando si rincasava e ci si preparava per terminare la giornata davanti alla zuppa di legumi, lo vedevo laggiù mentre calciava qualche sasso per evitare che le ruote della sua macchina lo investissero. Dicevo “Ciao Ivano, buona serata” e lui alzava la testa e mi sorrideva, e quel sorriso io lo vedevo come un preludio a brutti avvenimenti; non diceva niente, alzava lo sguardo e mi sorrideva, girando poi le spalle e tornandosene a casa sua.
Poi via via le cose iniziarono a rompersi, certi rapporti si squagliano senza nemmeno aver fatto niente, i tempi cambiano e anche noi arrivati ad un certo punto, ci inizia a dar fastidio qualcosa che prima non ci pensavamo e cambiamo. Creiamo tensioni dentro di noi, certe aree non vorrebbero prendere una direzione nuova, ma è come se in maniera del tutto imprescindibile, prima o poi siamo chiamati a farlo. Così quei saluti divennero più rabbiosi e fugaci, ci fu una piccola guerra in quel periodo; tutte le sue forze erano indirizzate al mio bastione. Voleva sfondare il portone ed entrarci con tutta la testa, questa era la mia impressione. I “buongiorno” del mattino divennero all’incirca otto, tutti sparati ad una velocità così rapida e immediata che nemmeno io riuscivo più a badarci. Anche solo che mettessi fuori la mano dalla porta per appoggiare il sacco dell’umido, sentivo da lontano “Ciao, buondì”. Se aprivo una finestra, sopra la mia camera, eccolo che me lo trovavo lì sotto con la testa alzata che mi diceva “buongiorno veh!”. Se scendevo le scale e facevo rumore, io in lontananza sentivo il suono delle sue scarpe venire proprio lì vicino alla mia finestra e dirmi – senza che io mi fossi mostrato fuori – “buondì, freddo eh!”. Qualche volta di notte, nel pieno della notte, se mi muovevo nel letto facendo cigolare un poco la struttura, sotto di me, lungo la via sentivo un colpo di tosse forte, bello tosto che proveniva dalla sua gola.
Una volta gli parlai, gli dissi di smetterla, iniziavo ad essere sconvolto…glielo dissi facendo una battuta “sei peggio di mia moglie!” ma lui si sentì attaccato in modo diretto, indietreggiò come se lo avessi voluto paragonare ad un qualcosa che non lo rappresenta in nessuna parte. Poi si fece forza e dopo che io smisi il mio sorriso per la battuta, mi venne vicino e mi disse parlando come suo solito “Buonagiornata” tutto attaccato a lettere scandite, come fosse una maledizione. Ne parlai con altri e tutti mi diedero dello scemo, dissero che Ivano non aveva in mente nulla di tutto ciò; pensavo mi volesse far impazzire ma i miei amici, tutti quanti, mi hanno consigliato di berci su e lasciare perdere quella buona persona.
Arriviamo al dunque, all’agenda. A seguito di una terapia psicologica di buon livello, ecco che il mio dottore mi consigliò di tenere un diario personale dove annotavo tutte le mie riflessioni a riguardo. Ma questo esperimento non mi dava alcuna soddisfazione, non mi sentivo appagato nel parlare per filo e per segno di lui in quel modo. Certi pensieri poi, peraltro, ad andarli a vangare fuori, diventano veri e propri mostri incontenibili. Fu proprio in un giorno di silenzio – a cavallo tra un saluto e un altro – che mi venne l’idea di documentare il tutto scrivendo semplicemente cosa mi veniva detto da lui e in quale orario. In questo modo la mia ansia avrebbe avuto un suo contenimento, e poi lo psicologo stesso mi aveva detto “fissati sulle cose concrete, non andare a farti delle illusioni”. Ecco che iniziai a scrivere tutto e mi accorsi, nemmeno dopo tanto tempo che quei saluti nell’arco della giornata erano diventati così tanti che una semplice agenda non riusciva a contenerli tutti. Si parla all’epoca di circa cent’ottanta saluti. Ivano non aveva alcuna intenzione di diminuire la dose, anzi, sua moglie una volta mi confidò che voleva licenziarsi da lavoro per prendersi cura del borgo. Solo a me salutava così tanto, gli altri nemmeno li guardava in faccia.
Così presi la cosa di petto e decisi di anticipare tutti licenziandomi per dedicarmi alla questione fino in fondo; d’altronde chi avrebbe potuto farlo se non io? Chi si sarebbe preso in carico un certo folle come lui, per dire a tutti quelli del borgo “guardate che lui qua è un matto” nessuno, così io penso. Fu così che iniziai con l’agenda nera, e fu così che da quel giorno io mi son preso cura della vicenda.