Senza fissa dimora. L’ottavo racconto di Francesco Menozzi.

Piccola storia impossibile di ladri, stradoni e fatti inconcludenti

Rubrica di Francesco Menozzi

Racconto pubblicato il 27/01/2023

Ogni volta che raccontiamo una storia ci sentiamo portatori di una testimonianza di vita, che sia la nostra o quella di qualcun altro o che sia una storia mai accaduta, inventata; la vicenda detta come va detta, riguarda noi tutti esseri “urlanti”.

Chiunque può partecipare alla rubrica inviandomi disegni, opere, fotografie da inserire all’interno dei singoli episodi per commentare con un’immagine o un’idea quello che la storia gli ha ispirato. Potete inviare il materiale alla mia mail francescomenozzi55@gmail.com . Sarà mia premura inserire il materiale e citare la fonte.

Francesco Menozzi

Ecco l’elenco di tutti i racconti di Francesco Menozzi che abbiamo pubblicato nella nostra rivista:

  1. La prima notte a Modena
  2. Un sottile filo rosso
  3. La ragazza carmina
  4. Anche Dio ha le sue ragioni che non vanno sottovalutate
  5. L’uovo della discordia
  6. Ossessione nel Borgo Stretto
  7. Le ricorrenze di Dino Cavazzuti

Buona (nuova) lettura.

 

Senza fissa dimora

Questo non è sicuramente un posto per intraprendere lunghe conversazioni, sembra che quella parete sulla destra stia per crollare, vedi, ci sono dei mattoni che stanno per scivolare fuori dall’asse, quella crepa segue tutta la superficie della parete; in più probabilmente l’intonaco è bagnato, qua dietro c’è solo campagna… se ci mettiamo qua rischiamo di essere sommersi da una montagna di mattoni, è la parete che non ha mai luce, quella da fuori abbiamo notato dall’autostrada. I pavimenti sono lucidi ma la ceramica bianca anni settanta è sporca di residui di un lavoro di muratura mai terminato, pezzetti di calce incollati al pavimento, strisce di cemento ancora in polvere che non hanno raggiunto il secchio, qualche chiodo arrugginito, dei fili di metallo aggrovigliati e gettati in un angolo assieme ad altra roba aggrovigliata e gettata tutta in quell’angolo là, frutto del nervosismo di uno degli operai, si sa, se le cose non vengono come si deve ad un certo punto fanno innervosire. “cosa sono quei tocchi neri là in fondo?” mi chiede lei come spaventata e intimorita dal fatto che in una casa come questa, abbandonata, la presenza di topi sia qualcosa di scontato.

-“Non è niente, sono macchie di cemento solidificato come queste qua a terra, cerchiamo una sedia, qualcosa con cui stare comodi”.

Passeggiamo all’interno dell’abitazione abbandonata, ci sono strisce di carta da parati strappate lungo tutta una parete parzialmente illuminata da una lama di sole che sembra indicarci la direzione da seguire per raggiungere la sala, o quello che resta della “zona giorno”. Il colore di questa carta da parati è verde, come quello del verde rame, un colore che mi ricorda un vaso di ottone che mia madre teneva gelosamente all’ingresso di casa, un vaso di ottone su cui metteva dell’edera finta che puntualmente, ogni due anni sostituiva con dell’altra edera finta, di uguale colore, comprata dallo stesso fioraio che due anni prima gli aveva venduta l’altra edera finta, poi finita diritta nel cestino. Quel rituale della sostituzione dell’edera era preceduto da un’attenta osservazione che mia madre faceva al vaso, ci passava davanti ogni paio d’ore per almeno una settimana intera prima di effettuare la sostituzione… notava che l’ossidazione proseguiva e via via stava invadendo tutte le parti, dentro e fuori, pur non essendo minimamente mai a contatto con l’acqua; per questo motivo lei non aveva intenzione di comprare fiori vivi o qualsiasi tipo di erba che avesse al suo interno una sola goccia d’acqua, temeva con grande angoscia  il processo di ossidazione che nell’ottone era oramai divenuto simile a quello di una malattia mortale.

-“Non metterci l’acqua lì dentro! mi raccomando!” ci diceva ogni volta che passando vicino al vaso ammorbato, ci fermavamo a guardarlo pensando a quanto fosse inutile quell’oggetto in una casa così discreta e priva di oggetti inclini ad un deperimento di quel tipo.

-“Per carità non ti azzardare a cambiare l’edera che c’è dentro!” ci diceva tutte le volte che qualcuno di noi la metteva al corrente che l’edera finta non è nemmeno un elemento d’arredo, quanto più un inutile suppellettile che oramai aveva fatto il suo tempo. Ma lei non ci ascoltava e puntualmente, quando la tensione in casa si alzava, interveniva.

Andava dal fioraio e chiedeva il solito mazzetto di edera finta, tornava a casa con questo grumo di fili di plastica su cui venivano attaccate questi strappi di tessuto plasticoso colorati di verde, mostrava con grande orgoglio il suo nuovo trofeo di caccia, lo alzava facendogli prendere la luce della cucina, sperava con tutte le sue forze che noi tutti in quell’istante potessimo vedere quanto in realtà, quell’edera finta non fosse così inutile, ma che anzi, contenesse al suo interno una certa quantità di stile. Ma ogni volta che questa cosa accadeva in noi non faceva altro che prendere piede l’idea che nostra madre era pazza, schizzata, lontana dal mondo dei vivi, e che quel suo modo di guardare quell’ammasso di plastica, non fosse altro che un tentativo vano nel portare all’esterno un disagio profondissimo, racchiuso in parte in quel vaso di ottone ossidato.

Qualcuno di noi gli disse “guarda che esistono rimedi, si comprano prodotti, forse acidi adatti per togliere l’ossidatura” ma ogni volta che lei si sentiva dire questo inveiva contro il mondo intero, diceva che i vasi, che quel suo vaso, glielo aveva regalato una parente cara, una lontanissima zia di terzo grado che lo aveva recuperato in un mercato nella metà dell’ottocento. Diceva a scandite lettere “sono cose di antiquariato, non si toccano” e noi che forse non abbiamo mai capito fino in fondo, alzavamo le spalle e tornavamo a fare il nostro.

-“Ci sono due sedie rotte laggiù, hai visto?”

Mi sporgo per non entrare troppo a contatto con il buio che occupa tutta la stanza, mi sporgo con il corpo entrando parzialmente dentro una stanza che somiglia ad uno studio, non ci metto piede, solo mi sporgo con il busto per osservare l’interno come fosse una fotografia vecchia, che oramai non vale che un’occhiata rapida e priva di troppe riflessioni. C’è una scrivania con sopra ancora un top di colore verde scuro

-“Sembrano quelle scrivanie inglesi, si vedevano nei film cose di questo tipo… quei film dove c’erano anche arredi eleganti… forse questa casa era di un uomo elegante. ricco intendo” anche lei si sofferma a guardare, accende la torcia del cellulare per illuminare un poco di più quella scrivania, notiamo effettivamente che è un bell’oggetto, i suoi piedi sono semplici, non intarsiati come certe cose di primo novecento che siamo abituati a trovare nei negozi dell’antiquariato più grossolano; è come se dei rami di noce fossero stati lavorati finemente fino a raggiungere la forma di un cilindro perfetto, nessun fronzolo, nessuna apparente allusione a qualche periodo imperiale o monumentale, quattro cilindri su di un ripiano rettangolare.

-“Sarà un 130 x 70… non è grande, ma si può rivendere, noh?” le chiedo, ma lei storce il naso, lo fa solo perché non vuole entrare in quella stanza, le dà preoccupazione l’odore di muffa, non vorrebbe essere qua a rubare assieme a me, lo si vede benissimo sul suo volto che non vorrebbe essere qua.

Le sue labbra ogni tanto s’increspano come se fossero torturate dai silenzi che si tiene in bocca e non intende abbandonare, ha paura di dirmi che vorrebbe andarsene via, che non vuole vedere il bottino che abbiamo recuperato nell’altra casa, non gliene frega più niente ma è costretta a restare perché il patto era questo. D’altronde io non mi sarei mai messo in testa di andare a rubare se non ci fosse stata lei, la sua magia nel portarmi a letto, la sua ipnosi. E’ una tortura questa, penso, fare qualcosa controvoglia e rendersi conto che chi ti ha fatto fare qualcosa controvoglia, di voglia ne ha meno di te che hai fatto qualcosa controvoglia. E’ una tortura a tutti gli effetti, peggio di prendere una laurea controvoglia e farsi andare bene un lavoro che con la laurea centra poco, pochissimo, ma che tutto sommato si rende fattibile. Peggio di quelle volte che controvoglia sono andato a trovare Mimì che stava in carcere per avere spacciato, ma che una volta là dentro, tra quelle mura pesanti, sorde, assenti, mi sono sentito come salvo io, io, non gli altri io.

Ma oramai è tardi e siamo nella seconda casa, e questa casa fortunatamente è abbandonata, non ce lo aspettavamo? Se lo aspettava forse qualcuno? No, ma dobbiamo finire il lavoro. Lei mi guarda poi riguarda dentro per capire se le sedie sono buone. Le sedie sono rotte, entrambe pendono tutte da un lato, le loro gambe sembrano tremare al solo sguardo. Ci spostiamo, lei mi dà la mano, è freddo pur essendo giugno, il ventitré giugno.

-“Fa freddo in questi posti non è vero? Sembra di essere in un altro posto, eppure siamo solo in campagna” le dico mentre lei fa un balzo tutto d’un lato perché davanti a lei sbuca un topo che subito scompare dentro l’intercapedine di una parete vicino alla scala.

-“Mérda che spavento!” dice con un accento che non sembra nemmeno il suo, ma di qualche suo parente che sembra avergli detto quella parola esattamente in quel modo, con le stesse inflessioni cadenti “mèrda!”, la guardo e lei si vergogna un istante, ma poi subito si ricompone e si libera della mia mano.

-“Vuoi salire?” le chiedo, lei si guarda attorno, guarda dietro di sé per capire cosa è accaduto, quale tragitto abbiamo fatto realmente. Si guarda dietro mantenendo il corpo in avanti, gira solo il collo quel tanto per capire cosa è accaduto, quale tragitto abbiamo fatto e quanto tempo abbiamo impiegato per farlo.

-“Sembrano passati due secoli qua dentro” mi dice mentre la sua voce sembra un poco più affaticata, debole. Le strofino la mia mano dietro la schiena, la scaldo proprio al centro sul punto della spina dorsale, quella porzione di colonna che va dal collo a sotto le scapole, quel punto in cui dall’altra parte c’è il cuore, i polmoni, la cassa toracica, i nervi, i muscoli, le clavicole. Le strofino la mia mano fino quasi a bruciare, mi dice: – “Basta così, va bene”, fa così lei il primo passo per salire in alto. L’odore è di muffa è così forte che rimaniamo colpiti come da uno schiaffo, ci fermiamo prima di continuare.

-“E’ un odore disgustoso, troppo forte. Cosa c’è sopra? Forse la cucina è sopra, ci sono cibarie?” ma lei ora prende forza e pur di liberarsi da questo stato di fissità in cui siamo finiti, fa le scale rapidamente, fino a che non raggiunge il primo piano. Le scale sono strette, levigate dal tempo, dai passi che nel tempo hanno percorso sopra e sotto, sopra e sotto ininterrottamente come una goccia d’acqua che cade sullo stesso punto per millenni. Sopra e sotto, destra e sinistra, la destra in quel punto preciso ogni volta, in quel punto dove ora c’è uno scivolo ed il mattone nn è nemmeno più riconoscibile, poi la sinistra più in alto dove c’è quell’altro punto levigato con più fermezza come se proprio da lì ci fosse finita molta più forza rispetto a sotto, e proprio da lì il corpo si è dato una spinta maggiore. Ma sempre e solo negli stessi punti, destra e sinistra fino ad arrivare in cima, seguendo le levigature presenti in ogni scalino.

E senza farci nemmeno caso mi sono trovato a ricalcare esattamente le stesse impronte di piede impresse nella scala, scivolando ma non cambiando posizione. Rischiando di finire a terra, ma senza cambiare, andando in su come chi ci è andato per millenni.

-“Hai visto quanto si scivola?” le dico, ma lei nota che le porte sono tutte chiuse, come se in quel piano qualcosa fosse cambiato, come se qualcuno avesse voluto tenere chiuse le stanze per paura che la corrente girasse liberamente, o che il caldo si propagasse inutilmente lungo la scala.

Ci guardiamo, le porte sono tutte chiuse, lei fa qualche passo, il pavimento regge, sì regge, ma non è così fermo e duro come quello sotto, qualche scricchiolio si sente, uno scricchiolio di fondamenta, probabilmente la palladiana fa così. Arriviamo alla prima porta, è una porta di legno colorata di bianco, tutto scrostato, lei prende un piccolo fazzoletto che ha nella tasca, lo mette attorno alla maniglia e la gira. Apre e subito ci arriva una folata di antico, di morto, di angosciato. L’odore del silenzio, così lo chiamava mio padre Antonio, tutte le volte che si tornava nella casa di montagna che restava chiusa per qualche mese, ogni volta che si riapriva la porta come fossimo tornati in una sorta di grembo materno, la prima impressione era quella, “un gran silenzio” diceva, anche orgoglioso del fatto che nessuno era entrato, nessun ladro, nessuna canaglia come me e Giulia ci aveva messo piede durante i mesi invernali. “Abbiamo una bella casa in montagna, un bel posticino in cui passare qualche settimana durante l’anno” diceva tutte le volte che qualcuno gli chiedeva “e voi dove andate quest’estate?” ogni maledetto anno la stessa risposta, lo stesso preludio a quello che sarebbe accaduto un paio di mesi dopo. La casa in montagna, ancorata a boscaglie rinsecchite, vecchie di chissà quanti millenni, “io non ci voglio venire lassù, voglio andare al mare” avevamo replicato in qualche occasione io e i miei fratelli. Ma niente, mio padre ogni volta era categorico “quella casa l’ho comprata coi risparmi di una vita, quando avrete i vostri risparmi farete quello che volete delle vacanze… per ora si va in montagna, nella casa in montagna dove si prende l’aria buona”.

Che poi di aria buona non ce n’era nemmeno siccome da qualche anno l’impresa Gherizzi aveva aperto una cava di estrazione, che ogni volta che veniva attivata ci faceva arrivare delle nebbie strane, nebbie che stordivano, arie che sembravano mortifere, mortali, dai colori sgargianti, rosse, giallognole, bianche avorio. In quelle occasioni, quando arrivava la nebbia, la nebbia di fumi della cava, mio padre chiudeva le finestre, le chiudeva con lo scotch, diceva che non doveva entrare niente, lo diceva a mia madre come se fosse un ordine:- “Non deve entrare niente!” ci mettevamo tutti in moto, sembrava dovessimo evitare un attacco nucleare. Io e Gigi andavamo sopra, ai piani sopra, dove c’erano porte simili a queste, ci prendevamo dei rotoloni di scotch enormi e blindavamo come meglio potevamo gli infissi. Passavamo bene lo scotch in quei punti sensibili. Non doveva entrare un solo filo di nebbia della cava.

Mio padre poi veniva a controllare, sembravamo soldati in attesa di sentenza, restavamo dritti aspettando che lui dicesse qualcosa. Se andava tutto bene si girava dopo aver controllato tutte le stanze, ci guardava e faceva un sorriso, nient’altro che un sorriso di padre, un sorriso buono di chi ha piacere che gli altri intendano ciò che dice. Se le cose non andavano bene ci guardava, diceva “si va bene” in un tono talmente dismesso e affranto che noi subito tornavamo a controllare meglio, cercando di capire cosa avevamo sbagliato. La nebbia quando arrivava ci colpiva come un uragano di scarsa potenza, ma di profondissima densità. La casa si riempiva di polvere fuori, la casa di montagna “dove si va per respirare l’aria dei boschi”, pieni di polvere della cava. Se andava tutto bene, se terminata la furia delle macchine, non entrava che un sottilissimo strato di polvere all’inizio dell’ingresso, la sera si festeggiava, si faceva il fuoco e si cucinava la carne. Mio padre aveva un modo marziale nel gestire le conseguenze, il destino delle cose: o tanto bene o tanto male. Se le cose non andavano per il verso giusto calava il silenzio, se la polvere entrava e si infilava per qualche pertugio, noi tutti ci sentivamo in colpa. “è colpa tua, questo tratto lo hai scocciato te!” ci si diceva mentre si iniziava a tirare su la polvere che si era depositata sulle cose.

Il pavimento trema un istante

-“E’ sembrata una scossa di terremoto? L’hai sentita?” ma non ci faccio caso, penso al fatto che in queste case sia più che normale che ad un certo punto, dopo tanti anni di silenzio, le ossa siano tutte scricchiolanti, e quando le si calpesta dentro gli si fa un torto più che un piacere all’inizio.

-“Bisognerebbe fare entrare un po’ di aria, non si respira” lei comincia a lagnare mentre io cerco nelle altre stanze qualcosa che si possa infilare dentro lo zaino. Non ne posso più di stare qua dentro, non ne posso più di camminare con i chiodi sotto le scarpe, non ne posso più di vedere il buio e qualche minimo particolare, qualche particolare di oggetti scaduti, rotti, che non luccicano, ma anzi, riempiono il cuore di cianfrusaglie.

-“Andiamo via, non c’è niente qua” lei si gira.

-“Non vorrai andare via adesso, è una villa importante questa, proviamo a cercare meglio… e poi fuori ci sarà ancora la polizia che ci cerca”

Ma io non voglio più starci lì dentro, voglio uscire, mi agito. Mi viene da sudare, sudo, mi viene da respirare con più lentezza siccome ho il timore che in queste case ci sia ancora dell’eternit, del materiale tossico, della polvere stordente.

-“Non vorrei mai svegliarmi domani con qualcosa addosso. andiamo via”

Ma lei si agita ancora più di me, batte i piedi a terra convinta nell’avere una ragione. Si sente un forte crack venire dall’alto, una pioggia di polveri e piccoli sassolini ci cade in testa come segno che la struttura non è più in grado di reggerci.

-“Non ci sopporta più nemmeno la casa… saranno i morti che non ci sopportano più. andiamo via. torniamo a casa”.

Ma Giulia non ascolta e dopo essersi levata dal volto quel sottilissimo strato di polvere, si sposta e si infila lungo il corridoio buio. Accende nuovamente la torcia del cellulare, cammina lentamente come qualcuno che fa piano mentre tutti dormono, è solo paura di morire quella, non c’è nessuno che dorme in un posto del genere. Tutt’al più saranno i topi che al nostro arrivo, oramai saranno già schizzati fuori dalla casa, nei fossi, o si saranno rintanati come quello che abbiamo visto giù.

Io rimango lì, Giulia si avvicina ad un’altra porta, questa è meno bianca ed è a ridosso di una finestra barrata con delle travi di legno. Questa porta è più scrostata e sembra avere sopra un insegna che non riesco a leggere, solo la riconosco dalla luce del cellulare che punta proprio in quella direzione.

-“Vieni qui, adesso basta… andiamo via” le dico a bassa voce, ma lei sembra non ascoltarmi, gira la maniglia dopo aver messo il fazzoletto sopra come prima, il buio è di nuovo tra noi. Non hai paura, mi ripeto, ma ho paura a restare in quella posizione, con ancora in testa tutte le briciole di sabbia e intonaco nella testa. Vorrei camminare, ma per andare dove? Giù forse? Ritornare giù? Ripercorrere a ritroso lo stesso tragitto, da solo? Riuscirei a farlo? A scendere in quell’inferno, dove sembra che ora al di sotto, non esista più nulla? Tutto si è sciolto al di sotto di questo piano… per andare dove? Dove si va? Giù? Come scendere all’inferno dei topi che ora si sono rimessi in moto e sento se mi concentro, il loro passeggiare delicatamente sopra il passamano della scala, tra le macerie tutte accatastate in un angolo della sala.

Passeggiano i topi, è casa loro, se la mangiano come vogliono, si mangiano tra di loro come cazzo gli pare, è una roba loro, noi qua di preciso che cosa ci siamo venuti a fare? Che cazzo centro io con tutto questo? Per uno stupido furto avuto in una casa qua dietro, un furto da innocente, un furto che non ha portato a niente, o forse chissà qualche centinaio di euro. Che cazzo ci sono venuto a fare io? Nemmeno ho controllato la refurtiva, non ho nemmeno più idea di dove si possa trovare una sedia in questo inferno. Laggiù non ci tornerò più, lo prometto, non scenderò mai più queste scale, non voglio più tornare tra i topi a vegetare, aspettando che mi attraversino la faccia, rimarrò qua. E se dovrò uscire da questa casa, passerò dalla finestra, da quella finestra lì, chiodata, con dei leggeri spiragli di luce, io passerò di là per scendere.

Giulia ricompare, delusa.

-“Niente, è una camera da letto, c’è un letto ed un armadio, non c’è niente che valga la pena. Ci sono ancora delle coperte di lana, quelle sono belle, tutte ricamate, ma le coperte non le prendiamo giusto?”

-“Direi di no, tu che dici?” lei mi fa un sorriso, poi si sistema la giacca, dice che vuole uscire dalla casa ma io sono terrorizzato dallo scendere nuovamente le scale, le dico che voglio uscire dalla finestra.

-“Cosa, sei pazzo?” ma io non sono pazzo, sono terrorizzato, voglio uscire dalla finestra, per DIO!!!!

Lei mi guarda, poi guarda la finestra, è bene inchiodata e blindata dalle travi, mi dice che sarà impossibile estrarre quelle travi, i chiodi sono profondi, arrugginiti, si rischia di farsi del male anche solo nel tentare di levare via quelle travi dalla finestra. Ma a me non me ne frega niente, mi faccio avanti e affronto il buio. Sento che lei mi dice “ti aspetto fuori” e poi un gran niente, un niente ancora più primitivo. Il corridoio è la mia vita, così mi pare di essere tornato al punto di partenza “se riuscirò ad attraversarlo tutto senza che mi accada niente… andrà tutto bene per i prossimi vent’anni” così mi ripeto nella testa mentre mi avvicino al mio obiettivo. Raggiungo le travi, le muovo ma non succede niente, son veramente bloccate come si deve, non c’è modo di toglierle usando semplicemente le mani. Ci picchio contro per provare a creare un effetto fortuna, che ne so, di rabbia, con l’idea di sfondare. Ma non accade niente. Così mi guardo attorno, accendo un accendino, mi guardo attorno e noto che c’è in fondo al corridoio, dall’altro lato un piccolo martello da lavoro con degli altri attrezzi probabilmente dimenticati da qualcuno che aveva delle ottime intenzioni in questo posto.

Sono salvo, ho già fatto il grosso, ritorno indietro con passo spedito. A quel punto si sente un fortissimo rumore, un rumore di crepe e torture che suona tra tutte le pareti, lo spazio libero dal tempo lascia che ogni suono ritorni come una pallina da flipper e rimbalza all’interno del suo schema di gioco.

La casa sembra iniziare a tremare selvaggiamente, prima uno, poi un altro, gli scossoni mi spediscono da un lato all’altro del corridoio.

.“Giulia, aiutami!” grido.

Ma non sento niente, non c’è più nessuno qua dentro, ci sono solo io e la casa, ci sono io e i rumori, è roba mia questa, Giulia è già fuori. Vedo che dal soffitto fatto di travi intersecate tra di loro si muove come una spada che lenta penetra la testa della casa, dal tetto si apre una piccola crepa, la luce, finalmente quella di cui ho bisogno per stare bene, andrà bene per i prossimi vent’anni mi ripeto. Mi giro rapidamente, un altro scossone ed una parete viene giù come svenuta, cade in blocco facendo uno wooommm a terra, il mio cuore si ribalta, la polvere mi entra dalla bocca questa volta, è la casa che mi entra dentro, è la casa che mi prende.

La scala crolla come se i pezzetti del tetris non ci stessero più bene assieme tra di loro, il cielo si apre ancora di più, è tutto un polverame, tutto prende fuoco pur non bruciando, mi sembra di essere dentro alla pancia di Moby Dick durante l’inizio della digestione. Le cose si muovono, tutte quante insieme, nella pancia di qualcuno, ci sono finito. La casa d’un tratto si abbandona al terreno, alla campagna. La casa crolla, finisce tutto ad altezza uomo, tutto quanto è terminato, tutto, me compreso.  Sento delle voci venirmi incontro, sono lontane, sono sempre più lontane pur se mi vengono incontro, sono lontanissime, sono le voci di dentro, sono matto? Sono forse impazzito? Sono salvo, almeno per i prossimi vent’anni andrà tutto bene, benissimo. 

 

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