Un sottile filo rosso. Il secondo racconto di Francesco Menozzi.

Piccola storia impossibile di ladri, stradoni e fatti inconcludenti

Rubrica di Francesco Menozzi

Racconto pubblicato il 17/10/2022

Ogni volta che raccontiamo una storia ci sentiamo portatori di una testimonianza di vita, che sia la nostra o quella di qualcun altro o che sia una storia mai accaduta, inventata; la vicenda detta come va detta, riguarda noi tutti esseri “urlanti”. (F. Menozzi)

Chiunque può partecipare alla rubrica inviandomi disegni, opere, fotografie da inserire all’interno dei singoli episodi per commentare con un’immagine o un’idea quello che la storia gli ha ispirato. Potete inviare il materiale alla mia mail francescomenozzi55@gmail.com . Sarà mia premura inserire il materiale e citare la fonte.

Ecco l’elenco di tutti i racconti di Francesco Menozzi che abbiamo pubblicato nella nostra rivista:

  1. La prima notte a Modena

Buona lettura.

 

Non saprei nemmeno da dove cominciare per raccontare questa storia. Ecco, vediamo, lasciatemi pensare qualche istante. Partiamo da oggi, sono le due di notte e per corso Canalchiaro non si muove un’anima, è un giorno della settimana, diciamo mercoledì e in questo periodo di tardo ottobre le nebbie obbligano le persone a starsene accucciate a casa perché i primi freddi misti all’umidità son sempre micidiali per le ossa. Qualche gatto gioca con un topo che è riuscito a catturare al centro della strada, lo rimbalza con le zampette che si muovono come fossero le braccia di un pugile mentre colpisce il proprio avversario con strafottenza ed entusiasmo. È il 1922 ma potrebbe anche essere il 1923 e a Modena ci sono i canali che trasportano l’acqua per tutta la città permettendo alle barchette di girarci all’interno, è un bella sensazione quella di viaggiare per barca tra le palazzine e le piazzette; qualche veletta è attraccata vicino al forno di Corso Canalgrande perché ha portato le farine che servono ai panettieri per farci il pane, altre ferme sono bloccate con delle corde a dei paletti di legno un po’ allentati che ogni tanto vanno martellati; queste imbarcazioni a riposo serviranno ai cittadini l’indomani per raggiungere le terre di provincia e gettarsi sui campi a lavorare la terra, annodando bene le piante, scegliendo gli innesti per l’inverno e capire che cosa seminare quando verrà la nuova stagione preparando il campo con le vanghe e i buoi. Sui canali immobili come fossero di vetro si muovono nei fondali pesci gatto, girini e altri esseri minuscoli mentre qualche trota smarrita nuota rasente all’alveo per tentare una risalita segreta, distante dalle canne da pesca piazzate di notte nella speranza di agganciare qualcosa. Si dice tra modenesi “segui l’acqua e vedrai che ti porta a Modena” più o meno, proprio perché l’intera città sembra costruita su di un terreno paludoso. Ci sono dei ponticelli che collegano le sponde dei canali ma ora che è notte c’è un silenzio che nessuno può rendersi conto della bellezza manifesta di queste strutture architettonicamente perfette, così solitarie e distese bene nella loro curvatura, fatte di mattoncini rossi scuro bene allineati dalla famiglia Belletti che un tempo si era interessata alla faccenda dei ponticelli iniziando a costruirne in giro per la città, ovunque fosse possibile. Il ciottolato delle strade è bagnato e riflette le luci delle stelle per tutto Largo Garibaldi, ancora dev’essere terminato il progetto di quella che poi diverrà Piazza Matteotti quindi per terra al momento c’è della ghiaia che sprofonda quotidianamente con il passare dei carretti obbligando i faccendieri del comune a lavoraci ogni settimana per rendere perlomeno percorribile la strada. Ci sono, sparse per tutta la città, pozze piene di acqua grigiognola che riflettono la luce delle stelle e delle nuvole che quando passano davanti alla luna lasciano intravedere la propria anima losca e oscura. C’è l’Accademia che dorme e si riposa dagli addestramenti, sembra una gigante signora elegante, i cadetti son dentro la sua pancia sdraiati come sardine nelle brande mentre sognano di andare con delle belle donne per farci l’amore e diventare ufficiali guadagnandosi il pane con le battaglie. Non ci sono spazzini per le strade, è ancora presto e i criminali queste sere sono troppo stanchi per andare a scassinare le serrande. Ogni tanto qualcuno starnutisce ed i vetri sottilissimi delle case vicine hanno uno scossone forte, ma la gente continua a dormire imperterrita perché non va consumato nemmeno un minuto di pace quando c’è buio. Dentro i forni sembra non esserci nessuno quando in realtà i panettieri si stanno impegnando per lavorare le farine silenziosamente, con respiri tutti trattenuti dentro quelle mura bianche, leggermente illuminati da lampadine giallo navone belle avvolgenti e riscaldati da forni imbottiti di legna buona, migliore di quella delle stufe per le case, migliore anche di quella che usano i bottegai per riscaldarsi durante il giorno.

Dopo questo inizio che vi ho voluto dire, ecco che dall’angolo di via Taglio sbuca svolazzando un piccione bello bianco, raro da vedere siccome gli altri sono sempre di quei colori grigi, neri e bianchi; le sue ali sono sbilenche, una è più grande di un’altra e sembrano anche spelacchiate in diversi punti, a fatica regge la traiettoria, sembra ferito ma in realtà appesa alla sua zampetta c’è un cordoncino rosso che scompare dietro l’angolo. L’uccello tenta in tutti i modi di alzarsi più in alto muovendosi come se al di sotto ci fosse un fuoco da evitare, cerca con il corpicino di allungarsi il più possibile tenendo la testa ferma, prova e riprova quando ad un certo punto con un bel colpo di ali si alza di almeno un metro e mezzo dando l’impressione che finalmente abbia iniziato a volare come gli altri uccelli. Dietro di lui spunta correndo Luigi Vaccari, bello come il sole seppure sia notte, magrolino con delle scarpe nere lucide un po’ saccagnate sulle punte, i capelli spettinati corti, una berretta che non copre bene la testa cucita dalla nonna Rosalina, la sua giacchetta “storica” bucherellata di lana marrone ed i pantaloni belli foderati nuovi. “movet!!!! movet!!! movet, Borgatta!” dice Luigi incitando così tanto l’animale da svegliare quelli che dormono lì sopra. Qualcuno dalla finestra esce fuori e dice “va mò a cà Puos” – vai a casa ubriacone! Mentre altri che non hanno la forza di rispondere cercano di centrarlo in testa lanciando silenziosamente i loro escrementi raccolti dentro ai vasetti da notte porcellanati. Ma a Luigi non gli interessa niente delle persone, dei loro escrementi, degli orari da rispettare per fare cagnara, Luigi sogna di fare volare il suo piccione Borgatta così tanto lontano da vincere il primo premio della gara di piccioni viaggiatori “messaggero alato” che tutti gli anni si tiene alle porte di Modena. Quella sì che è una competizione di tutto rispetto, adatta solo per esemplari meravigliosamente preparati a lunghe attraversate, difatti vede la partecipazione di numerose contrade, altrettanti paesi e città emiliane capitanate da grandi addestratori di piccioni viaggiatori. È la notte prima della partenza e Luigi è emozionato, vede in quella creatura bianca e storta la sua salvezza, anche se in parte lo è già stata per lui. Ma adesso facciamo un passo indietro, torniamo all’inizio dell’inizio di questa storia.

Tutto è partito quando una mattina di maggio sul davanzale della camera, Luigi ha trovato il piccione immobile, impassibile, come se fosse stato già in parte addestrato o semplicemente avesse fatto un viaggio lungo e si volesse riposare in quel punto con il sole delle undici che gli batteva sul suo corpicino bianco latte. Luigi ha subito pensato che fosse un dono del signore e che proprio per quel motivo lui con quel piccione avrebbe guadagnato un bel gruzzoletto per poter curare il papà da una brutta bronchite e comprare alla sua mamma un bel vestito per la domenica, di quelli eleganti con i ricami sul petto e le cuciture ben fatte che anche se il corpo nel tempo si allarga lui regge dignitosamente ogni alterazione. Aveva chiamato il piccione Borgatta proprio in onore del suo compositore preferito Emmanuele Borgatta di cui aveva sentito un pezzo suonato una domenica delle palme in duomo davanti ad una folla di persone che terminato il brano iniziò a commuoversi colpita dalla bellezza di quelle musiche. Ma sin dalle prime battute d’ali le cose non andarono proprio benissimo e Luigi si accorse immediatamente che c’erano delle perplessità; quell’uccello faceva una grande fatica a volare e seppur fosse un bellissimo esemplare aveva delle difficoltà innate e sembrava rallentato, diverso dagli altri piccioni che invece già a Modena erano agguerriti in Piazza Grande durante il giorno, quando il mercato offriva a loro ogni tipo di cibaria da raccattare a terra. Quei piccioni, quel gruppo della piazza che stava tutto in fila come un esercito pronto all’attacco, quello sì che era scaltro, furbo e adatto alle turbolenze; certi esemplari si fiondavano sulla piazza come proiettili schizzati ad una velocità incredibile che bucavano i cilindri degli uomini mentre stavano camminando “dièvel d’un uzel” – diavolo d’un uccello, oppure aggredivano i bambini mentre cercavano di mangiare al castagnaz strappandogli dalle mani la torta ancora fumante. Quei piccioni, quelli sì che erano adatti per fare lunghi viaggi e sfidare altri simili in tirate da duecento chilometri sui cieli di tutta l’Emilia-Romagna e oltre; tornando indietro ancora più affamati e agguerriti contro i bambini e i loro castagnaz. Borgatta invece era così indifeso che Luigi era costretto a farlo volare di notte proprio per evitare che altri suoi simili lo aggredissero siccome già ci avevano provato una mattina spulciandogli dalle ali qualche piuma anche se fortunatamente il cordoncino rosso che Luigi gli teneva attaccato alla zampetta lo aveva salvato. Poi nei mesi successivi la fantasia di Luigi iniziò ad allargarsi sempre di più, la sua tenacia nel voler vedere il piccione volare per le vie del centro era diventata un’ossessione così grande da portarlo tutte le notti in giro per le strade di Modena a correre e a ghignare brev! ogni volta che un’ala faceva una bella movenza. Ma i risultati tardavano ad arrivare e nonostante il rapporto tra i due si fosse perfezionato, le questioni riguardanti il volo non accennavano a migliorare, nemmeno le traiettorie che rimanevano delle linee a zig zag disegnate nel cielo e nemmeno la struttura fisica di Borgatta aveva assunto più solidità; il piccione era identico a quando l’aveva trovato e seppure si sforzasse nel dare una buona impressione faticando per volare un po’ più in alto, purtroppo quelle ali così striminzite e quel piumaggio un po’ spelacchiato non gli davano buone speranze. Luigi si era anche interessato alla questione portandolo da un amico di suo padre, Pierino Maccari che aveva un negozio di velocipedi e di quelle che più avanti diventarono biciclette. Quell’uomo non parlava molto, stava tutto il giorno con le mani su bulloni, camere d’aria, copertoni e catene, se ne tornava la sera a casa da sua moglie Annamaria, mangiava la zuppa e andava a letto. Allora quel giorno Luigi portò Borgatta da Pierino che dopo averlo osservato da dentro la sua gabbia gli disse senza usare mezzitermini che quel piccione andava cucinato con un po’ di cipolla e due carote, “ag vol dlà zigolà e du caròt” e nient’altro da aggiungere. Luigi si era così scoraggiato che passando davanti ad un’osteria e sentendo l’odore degli arrosti aveva paura che qualcuno potesse rubargli Borgatta e cucinarlo, per questo motivo a suo malincuore cercò dai robivecchi una gabbietta che riuscì a trovare per mettercelo dentro durante il giorno quando era a riposo dagli allenamenti, evitando così che qualcuno glielo potesse acciuffare e cucinare con cipolla e carote.

Poi un giorno accadde qualcosa di inaspettato, proprio mentre Luigi era in casa che stava terminando le faccende siccome sua mamma aveva la flebite, Borgatta riuscì a scappare dalla gabbietta e a fiondarsi fuori come se si volesse gettare dalla finestra; Luigi correndo verso il davanzale non riuscì ad afferrarlo vedendo tutti i suoi sogni di gloria sfumare in un suicidio inatteso. Ma Borgatta non si era suicidato pur avendo una volata preoccupante; Luigi che non lo vide si mise al davanzale gridando “Vin chè Borgatta!” – Vieni qui Borgatta! nella speranza che qualcosa lo facesse ricomparire come il primo giorno lì davanti alla sua finestra con quell’aria pacifica e senza alcun pensiero nella testa. Ma del piccione non c’era nessuna traccia e Luigi dopo un quarto d’ora sembrava in uno stato catatonico con lo sguardo fisso verso il vuoto, poi d’un tratto gli venne l’idea di fischiare e dopo qualche fischietto timido e imbarazzato l’agitazione diventò così grande che ne tirò uno così forte che un piccolo bicchierino che c’era sul davanzale si ruppe in mille pezzi. Ma ancora niente. L’agitazione allora salì talmente tanto che iniziò a fare il verso dei piccioni sempre più forte e con un’inflessione così gutturale che le persone da sotto iniziarono a guardarlo e a dirgli “veh Luigi, sa get!! Vot ca ciamam al dutòr?” – veh Luigi cos’hai? Vuoi che chiamiamo il dottore? Ma accadde che proprio quando Luigi si sentiva le corde vocali infuocate e le orecchie pulsare da lontano riconobbe il piccione tornare a casa con la sua volata malconcia, sbattendo un poco contro un’insegna ma riprendendo fortunatamente quota; si accorse inoltre che nel becco aveva infilato un piccolo ninnolo di argento probabilmente di proprietà di qualche signora benestante. Subito lo riprese dentro togliendogli dal becco quella spilla che aveva delle piccole pietruzze incastrate dentro, così luminosa e sfavillante che lo stesso Luigi si spaventò nel tenerla esposta alla luce del giorno; temeva che qualcuno notando il luccichio proveniente da una casa dai vetri opachi e pani secchi gridasse “ti un ledèr!” – sei un ladro! Luigi che quel giorno aveva capito di essere diventato un ladro controvoglia nascose subito il ninnolo e si precipitò verso la gabbia con l’uccello tra le mani, mentre Borgatta sembrava a posto, sereno, come se niente fosse successo.

Il ragazzo aveva una paura boia di essere beccato, quei giorni successivi furono impegnativi, girava come se si volesse nascondere dagli sguardi degli altri, i suoi occhi azzurri e piccini si chiudevano ancora di più dando l’idea che stesse camminando ad occhi chiusi come un cieco. A quelli che lo fermavano diceva che aveva male agli occhi “a go mal ai och”. Ma quando si accorse che nessuno aveva detto niente di quel ninnolo e che per Modena non si faceva altro che parlare di campi da arare e del traffico intenso di barchette il giovedì, ecco che a Luigi venne un’idea. Un pomeriggio portò Borgatta sotto il davanzale dell’avvocato Ferrarini noto per avere una casa sfarzosa e piena di oggetti di valore; si vociferava che aveva dei manufatti provenienti dalla reggia del duca Francesco I e che avevano un valore inestimabile. Luigi si mise proprio sotto la finestra dell’avvocato e quando vide che da sopra la domestica aprì la finestra per lasciare correre l’aria, ecco che Luigi liberò Borgatta dalla sua gabbia e lo lanciò in direzione della finestra come fosse un arpione collegato per la zampetta dal cordoncino rosso. L’uccello che subito si sentì sballottato si riprese a metà volata e quando vide che la situazione era sotto controllo si fermò un istante sul davanzale della finestra, ritornò pacato e sereno come un tempo guardandosi attorno e solo dopo qualche minuto di riposo entrò dentro la casa. Luigi spalancò gli occhi quando vide scomparire il volatile dentro la casa notando che il filo rosso tirava per bene e con forza; pensò di aver fatto un lavoro ottimo e si sentì perfettamente soddisfatto della sua missione. Ma passato quel momento di gloria vide Borgatta schizzare fuori dalla casa spinto da una scopa che gli tirò una botta nel sedere facendolo piombare giù diritto nelle mani di Luigi. Fortunatamente il piccione non si era fatto niente ma Luigi che aveva preso un granchio iniziò a capire che le cose andavano fatte meglio e con più responsabilità nei confronti dell’animale. Un’altra botta come quella e per il piccoletto la carriera sarebbe terminata. Così a dire la verità, l’allenamento di Borgatta veniva suddiviso in due parti: la prima legata al volo e alla traiettoria per fargli capire come si doveva fare per cavalcare le giuste correnti e vincere la gara; mentre la seconda parte che era quella più remunerativa, era legata a delle perlustrazioni che il piccione veniva invitato a fare dentro le case che Luigi vedeva adatte a quel tipo di insegnamento. Beh, nel giro di qualche giorno Borgatta riuscì a recuperare di tutto, da semplici fermacarte in bronzo a piccoli gioielli che spiluccava dentro le case di nascosto; erano tutte cose che non avevano un gran valore ma che per Luigi rappresentavano una grande conquista. Ovviamente questo veniva fatto sempre di notte mentre tutti dormivano, e solo in certe case che avevano ancora aperte le finestre, siccome in qualche famiglia c’era l’usanza di tenerle aperte anche con il freddo, per lasciare correre l’aria dentro le camere ed evitare che le anime dei morti rimanessero troppo dentro a rimuginare.

Questa volta però le cose cambiarono e la gente nel giro di qualche giorno iniziò a fare delle domande “m’an freghé la catenina, et vist in zir queich’dun?” – mi hanno fregato la catenina, hai visto qualcuno in giro? Luigi nemmeno se ne rendeva conto del chiasso che stava producendo, girava per Corso Canalgrande mangiando la zucca cotta e guardando le barche che ci attraccavano, sognava un giorno di prendersene una per portare il suo piccione lungo tutti i canali a rubare di sfuggita dentro qualche casa dalle finestre aperte. La fantasia di Luigi oramai era incontrollabile, gli dava una sensazione di benessere credere che finalmente aveva capito cosa voleva fare nella vita e anche se il suo mestiere era il ladro, giustificava il fatto dicendosi amante degli animali e che in realtà il vero ladro era Borgatta, non lui. Per questo motivo se la godeva, passava qualche ora in giro per la via Emilia facendo due chiacchiere dal fornaio che era suo amico, poi passava dal ciabattino che ogni due giorni sistemava le scarpe alla madre per andare a lavorare. Questo clima di tensione si allargò sempre di più, la gente iniziava a temere che ci fosse un ladro in giro per i portici o lungo le stradine; nessuno più camminava per Via degli Adelardi o per Vicolo Forni, ritenute delle zone altamente a rischio per i passanti siccome erano così strette che due persone incrociandosi avrebbero potuto infilarsi le mani in ogni parte del corpo per rubarsi ogni cosa, comprese le mutande. Qualcuno andava vociferando che per strada si muovevano ladri trasparenti come fantasmi, che rubavano mentre la gente era impegnata nelle faccende di tutti i giorni. Ma Luigi che sapeva tutto ridacchiava e pensava che la gente di Modena era tutta bizzarra nel credere a quelle scemenze; nessuno avrebbe mai pensato che il vero ladro era Borgatta, il suo piccione viaggiatore.

Con tutti quegli averi che nascondeva sotto una tavella di legno, Luigi decise un giorno di andare fuori città; prese con sé Borgatta per farlo allenare in aperta campagna e lo portò alle porte di Modena, vicino a Villanova. Lì c’erano dei tizi loschi che compravano qualsiasi cosa avesse un’anima di metallo, che sia stata di bronzo, oro, argento o stagno, loro prendevano tutto sottobanco e non facevano domande riguardo la provenienza. Giravano con carretti dalle ruote consumate, avevano cappelli belli gonfi e bassi, calati sugli occhi per non farsi riconoscere dalle persone; erano pieni di soldi e trafficavano qualsiasi cosa. Luigi consegnò a uno di loro tutto il malloppo e questi dopo averlo osservato attentamente se lo mise dentro il carretto nascondendolo ben sotto la catasta di roba, guardò diritto negli occhi Luigi per capire quanto lo avrebbe potuto fregare e poi, dopo un bel sorrisone sdentato gli diede dei soldi, “millecinquecentomilalire, at’van bein?” – ti vanno bene? tutti sulla mano. Luigi fece finta di contarli anche se a malapena sapeva arrivare e cento, centouno e poi quando terminò la farsa di girare tra le mani quei fogli di carta giganti lo guardò e disse “a sun cunteint!” – sono contento! Scattando via con Borgatta che spazientito tirava delle beccate da dentro la sua gabbietta. Lui era così compiaciuto che quel giorno decise di liberare Borgatta nel cielo senza cordoncino rosso. Si appostò per bene distante dalle strade e dai fucili dei cacciatori che sbucavano dai cespugli e aprì la gabbia. il piccione dopo un attimo di esitazione uscì fuori, librandosi malamente per la prima volta in uno spazio così aperto. Libero, eccolo, finalmente, Borgatta nella campagna modenese libero di girare tra piante di pere e distese infinite di terreni fangosi trattenuti dalle montagne dell’appennino. Pensò di riconoscere al suo piccione parte della ricchezza che aveva raccolto e così durante il viaggio di ritorno, mentre il piccione girava liberamente vicino a lui sempre con la sua andatura sbilenca, Luigi si fermò in un campo e chiese al contadino che ci stava lavorando se poteva guardare bene nel terreno fangoso per raccogliere dei vermi da dare all’uccello. Il contadino accettò un po’ stranito; Luigi come segno di riconoscenza gli mise sulle mani venticinque lire belli lisci e poi subito, senza nemmeno sentire ringraziamenti si fiondò a terra e iniziò a tirare fuori dal terreno bagnato dei piccoli vermi che diede da mangiare a Borgatta felicissimo. Certo, quei soldi non potevano essere spesi così tutti d’un colpo, avrebbe immediatamente attirato l’attenzione su di sé e sulla propria famiglia povera da una vita. Luigi non fece sapere niente né a suo padre né a sua madre pur avendo dentro di sé una voglia di gridare al mondo intero “a sun diventé un signòor!” – son diventato un signore! Iniziò piano piano a comprare il pane senza usare i soldi del cesto, comprò dei piccoli vasi nuovi per le piante di casa, li prese belli bianchi da Erminia che li dipingeva con delle fantasie orientaleggianti. Poi si comprò un paio di calzoni belli foderati che andavano bene per l’inverno, li prese larghi sulle gambe e stretti nella vita, come andavano di moda in quegli anni. Comprò per il padre una medicina dalla farmacia vicino al Duomo, un rimedio miracoloso per i polmoni che andava messo dentro un bicchiere d’acqua come una polverina magica da sciogliere. Ma per evitare che il padre facesse troppe domande, Luigi ogni sera prima di cenare prendeva da parte il bicchiere al padre e lo riempiva di acqua facendo attenzione nello sciogliere la polverina magica dentro come gli aveva detto il dottore. Il padre che oramai erano mesi che girava con un bel cassone dentro i bronchi nel giro di qualche giorno iniziò a sentirsi bene e a ritornare a lavorare come un tempo salutando i suoi amici con il suo vocione bello grintoso “a vag a lavurer!” – vado a lavorare!

Ed eccoci arrivati a questa notte, questa in cui come dicevo all’inizio Luigi gira con il suo Borgatta per le vie di Modena alla ricerca di una bella svolazzata o di un pezzetto di argento da portare ai tipi loschi di Villanova. Le strade sembrano vuote ed il piccione oramai che le conosce tutte bene si muove come se in certi momenti fosse ispirato a fare delle virate piuttosto che delle altre. Luigi tiene ben stretto il filo rosso, lo allenta quando vede che il piccione cerca di salire in alto anche se oltre quattro o cinque metri non riesce ad andare. I due corrono per le strade come due amici che l’hanno fatta grossa; l’uccello ogni tanto gira il collo per vedere che il suo amico umano gli sia dietro e così anche Luigi ogni tanto alza la testa per vedere che il suo amico pennuto stia dando delle belle tirate con le ali. Trottano come fossero i padroni della città intera fino ad arrivare a porta Bologna dove oltre inizia il niente, e la gente della campagna che non ha modi così civili, se notasse un uccello come Borgatta in casa lo catturerebbe immediatamente, o libererebbe dei cani che con un balzo lo azzannerebbero. I due si fermano lì poco prima del niente e guardano verso la via Emilia scarna e libera dalle case. Un piccolo rigagnolo di strada con ghiaia si perde nell’infinito lasciando nella testa mille interrogativi riguardo a cosa potrebbe esserci dentro quel buio; così pensa Luigi mentre nota che Borgatta si è fermato su di un muretto vecchio un po’ spaccato ma ancora in forze.

Domani ci sarà la gara e Luigi sa che Borgatta non potrà partecipare o che se parteciperà non riuscirà nemmeno ad alzarsi insieme agli altri uccelli alla partenza per catturare la giusta corrente del vento, e scomparire nel cielo come fanno tutte le cose che ci abitano. Forse Borgatta non è fatto per volare o forse il suo modo di volare non è concepito per lunghe distanze o cieli così alti e infiniti. I due si guardano e per un attimo Borgatta scuote le ali per poi piegare la testa infilandola dentro il fianco destro, come se in quell’istante gli fosse sopraggiunto un pensiero imbarazzante. Luigi si avvicina al piccione, gli dice sottovoce “sa get adesa?” – cos’hai adesso? e sale sul muretto, fa fatica siccome non ci sono molti appigli ma ci riesce. Si posiziona vicino all’uccello e con la mano un po’ socchiusa gli fa una carezza sulla testina piegata e assonnata. In quel momento le cose si addormentano definitivamente, ora la nebbia è così fitta che non si può vedere nemmeno sotto i piedi cosa c’è e cosa non c’è. La vita dei due sembra essersi fusa in un’unica vicenda separandoli da ogni altra cosa; la fuliggine gli entra dentro i polmoni passando per il naso ed il becco, le gambe piano piano vengo intrise di umidità, un’umidità così densa e fitta che sembra cancellare anche le gambe stesse e le zampette dell’uccello. Il freddo, ecco sì il freddo che arriva tutto all’improvviso, taglia in due lo sguardo facendo accoccolare i due amici sempre di più vicini l’uno con l’altro. Il cielo non esiste più, vi è solo uno strato biancastro di aria che ricopre il mondo, Modena è scomparsa come spesso accade quando i sogni diventano giganti e si trangugiano luoghi magici a cui basta pochissimo per essere divorati dalle illusioni. Borgatta in quel momento, proprio in quell’istante lascia cadere il suo corpicino accanto alle cosce di Luigi, sfinito dagli allenamenti estenuanti che lo hanno sballonzolato in giro per la città, mentre Luigi che si sente felice accanto al suo amico lo imita piegando la testa per nasconderla dentro la sua giacchetta storica di lana marrone; entrambi seduti sul muretto di porta Bologna, come due briganti, come due forestieri, come due semplici amici. 

 

 

 

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