Anche Dio ha le sue ragioni… Il quarto racconto di Francesco Menozzi.

Piccola storia impossibile di ladri, stradoni e fatti inconcludenti

Rubrica di Francesco Menozzi

Racconto pubblicato il 15/11/2022

Ogni volta che raccontiamo una storia ci sentiamo portatori di una testimonianza di vita, che sia la nostra o quella di qualcun altro o che sia una storia mai accaduta, inventata; la vicenda detta come va detta, riguarda noi tutti esseri “urlanti”. (F. Menozzi)

Chiunque può partecipare alla rubrica inviandomi disegni, opere, fotografie da inserire all’interno dei singoli episodi per commentare con un’immagine o un’idea quello che la storia gli ha ispirato. Potete inviare il materiale alla mia mail francescomenozzi55@gmail.com . Sarà mia premura inserire il materiale e citare la fonte.

Ecco l’elenco di tutti i racconti di Francesco Menozzi che abbiamo pubblicato nella nostra rivista:

  1. La prima notte a Modena
  2. Un sottile filo rosso
  3. La ragazza carmina

Buona lettura.

 

Lasciate che vi dica almeno un paio di cose. A fare l’angelo ho imparato a stare con gli uomini in modo più discreto, e sempre da quando mi son dato da fare per essere un angelo non vorrei più tornare indietro. Di certo volare è tra le cose più ammirabili che mi posso permettere di fare, ma ci son altre cose più intriganti di cui vorrei parlarvi un istante. Il mio nome è Wainer Marescotti e sono nato il venti tre novembre del millenovecento cinquantanove a Casale California, una piccola frazione della provincia di Modena, dalle parti di Castelfranco Emilia. Chiunque legga fin qui penserebbe che io mi sia dedicato al signore, siccome essendo adesso un angelo, uno potrebbe pensare che tutta la mia vita sia stata all’insegna dei “padre nostri” o dei catechismi; ho avuto la vocazione? Son diventato un prete? No niente di che, anzi Io sin da piccolino avevo un odio e una repulsione verso la chiesa che tutte le volte che mia madre mi ci obbligava ad andare assieme ai miei fratelli, per me era un trauma.

Le domeniche mia madre ci svegliava con dei campanacci da vacca, li teneva nascosti per evitare che glieli trovassimo e ci staccassimo il batacchio; li faceva suonare con le sue braccia grosse e grasse. Saliva le scale strette e quel rumore già ci si piantava dentro le orecchie come un chiasso di metalli in grado di smuovere i ricordi, i sogni, le parole, gli eccitamenti. Entrata in stanza ce li sventolava in aria come fossero dei grossi arnesi da battaglia; noialtri che eravamo otto maschi e dormivamo in letti a castello in una camera che sembrava la stiva d’una nave, subito ci drizzavamo, e signori, non c’era nessuno di noi esente da quel tipo di frastuono. Antonio che già c’aveva diciassette anni ed era il più grande di tutti, era forse quello che reagiva peggio ai campanacci; s’induriva tutto come fosse una trave di legno e iniziava a piangere disperatamente. Manuele che era sempre stato il più intraprendente picchiava forte con le mani contro il cuscino, sembrava volerci dare una bella lezione a quelle piume d’oca…diceva con la bocca schiacciata contro la coperta “boia d’un can!!! Cla vaca ed Gina!!! E anche Antonio che all’epoca aveva all’incirca undici anni reagiva in un modo tutto suo, si pisciava addosso. La faceva così bene liberandosi totalmente, che poi quando ci alzavamo, quell’enorme macchia giallognola continuava a fumare dei minuti come fosse una minestra appena fatta. Solo dopo ci rivelò che quel pisciare era voluto ed era una sua forma di ribellione a quel baccano domenicale.

Mamma Gina dopo aver riposto i campanacci nei luoghi segreti, rientrava dentro la camera e diceva solo “in pè a ghè d’ander in cesa” – in piedi, bisogna andare in chiesa. E noi che avevamo già i timpani smossi, sentivamo i corpi come fossero tutti indolenziti dalle botte dei chiassi. Saltellavamo e ci davamo delle pacche dietro la schiena per aiutarci a portare il sangue alla testa in fretta. Sembravamo degli indiani in quella camera, il nostro piccolo rituale domenicale si componeva con un girotondo dove noi tutti seguivamo quello che faceva quello davanti a noi; lo si faceva per scaldarsi, mica per altro. Mano destra su spalla destra e poi mano sinistra su spalla sinistra, così avanti per dei minuti. Non avevamo altri propositi, noi eravamo disgraziati e con i disgraziati i riti non funzionano mai. Ma questo nostro teatrino domenicale non veniva ben visto da mamma Gina che quando ci beccava ci tirava dei grossi schiaffoni dietro la testa e diceva “adesa ag pens me a dèrv al sang in dla tèsta” – ci penso io a darvi il sangue alla testa.

Noi tutti svegliati ci lavavamo come meglio si poteva, alcuni come Roberto e Nicolino, pace all’anima sua, morto di tubercolosi, avevano paura dell’acqua e si spostavano anche ai soli schizzi che facevamo in bagno; fingevano di usarla come noialtri quando in realtà le loro mani erano asciutte. Ci si vestiva con le braghe buone, di lana, tenute dritte nell’armadio perché non si rovinassero; in quel momento scendeva un gran silenzio, avevamo paura di morire, di essere trasferiti con quegli indumenti eleganti direttamente nelle barette per adolescenti. Così facevamo silenzio, ci guardavamo sperando non accadesse nulla di male, ci controllavamo tra fratelli; se un colletto non era ben tirato facevamo il segno all’altro evitando di dire parole. Usavamo le mani, rompevamo l’aria gelida con qualche spazzolata sulle spalle per tirare via quel polverino che si formava durante la settimana. Si scendeva come carcerati, dal più alto al più piccolo, così voleva vederci mio padre Tony, che ha sempre avuto la fissazione delle cose in ordine, in fila, in successione. A lui non gliene fregava niente di noialtri, lui diceva una cosa riferita a tutti senza fare distinzioni, dava del tu a noi tutti quanti. Ci sedevamo e diceva “et durmì bein?” – hai dormito bene? ma senza guardar qualcuno in particolare. Lui dava del tu a noi tutti e otto messi insieme. Non tutti rispondevamo, certuni muovevano solo le labbra, mentre altri facevano dei cenni, come per dar prova a Tony che noi tutti ci stavamo rispondendo.

La chiesa non era che una scatola chiusa, dove i ricchi e i poveri scambiavano un segno di pace sapendo che la guerra non sarebbe di certo terminata con quel gestuccolo. I padroni avrebbero continuato a picchiare, a darci le mazzate perché la “macchina” così ha dettato, penso da tempi antichissimi. Così ci è sempre sembrato, e noi che eravamo poveri in canna, solo in quel giorno, alla domenica, ci potevamo permettere di guardare diritto negli occhi tutti quelli che si incontrava a messa, anche le ragazzine delle famiglie più abbienti che solitamente nemmeno ci consideravano fuori da quelle mura. Manuele aveva una bella cotta per Brigitta, la figlia del carrozzaio; quando entravamo in chiesa sembrava ci avesse il radar, la trovava subito e lei sembrava aver capito che lui l’aveva agguantata con gli occhi. Si scambiavano degli sguardi che a noi facevano ridere, ci vedevamo tutta la sciocchezza della vita in quei messaggi sdolcinati, lanciati con degli sbattimenti di palpebra così rapidi e imbarazzanti. Sedevamo in fondo, dove si sentiva l’odore della terra siccome a noialtri non era permesso andare davanti; c’era una norma non detta a voce, che doveva in un qual modo differenziare i profumati dai pezzenti anche in chiesa. Quel che era certo era che la messa portava tutti ad uno sfinimento incredibile, mia madre che passava il tempo a implorare il signore di mandarci al collegio, fuori dai coglioni, non faceva altro che riprenderci con piccoli tonfi di scoppole sui nostri corpi agitati, in preda a qualsiasi prurito. Non ce la facevamo, era più forte di noi, ogni momento volevamo andarcene e anche se conoscevamo per filo e per segno tutta la processione, alle volte si sperava che il prete volesse finirla rapida, e così ci si muoveva tutti in gruppo verso l’uscita durante certi momenti di silenzio contemplativo.

Finita la messa si usciva fuori, si stava tutti lì davanti a fare i pali, tiravamo fuori dalle tasche ogni piccolo scacciapensieri: elastici, fogli ben stirati con cui fare i fischi per fare paura ai vecchi, piccole trappole per rospi e altri marchingegni bastardi per ingannare la noia. Noi ragazzi alle volte venivamo tutti radunati in un angolo della piazza, il prete ci teneva a parlarci separatamente dai nostri genitori, e così quando voleva farlo, usciva Anna, che era la perpetua, e ci diceva “di là dai fiori, subito”. Don Luigi scendeva dalle scalinate della chiesa e veniva da noi senza nemmeno tener conto del freddo, di certi lamenti da parte dei nostri genitori o di qualche imprevisto come la morte di una persona che lo avrebbe richiamato ad una benedizione della salma. Veniva lì davanti a noi e prima di farci la fatidica domanda ci guardava con i suoi occhiali da sole neri, gelidi. Iniziava a camminarci davanti come fossimo dei soldatini in riga, poi si fermava davanti a qualcuno e con il dito puntato diceva “tu ci credi in Gesù?”, lo diceva con velocità come se a quella domanda bisognasse rispondere col cuore e non con la mente. Detestava i momenti di pausa a quelle domande. Chiunque veniva indicato con quell’indice biancastro doveva dire “Si, don Luigi, me ag voi bein al Redentor” – si io ci voglio bene al Redentore, facendo stemperare una tensione che galleggiava nell’aria e che noi toccavamo con mano, mentre i nostri genitori se ne stavano lì davanti alla piazzetta a scambiarsi chiacchiere di ogni tipo.

Ma accadde che un giorno terminato l’interrogatorio io mi sentì di restare in quel posticino, aspettai che tutti lentamente se ne andassero per restare solo. Avevo già avuto questa esigenza, intendo di appartarmi e stare in silenzio a guardare le cose per conoscerle da un’altra prospettiva. Nella mia testa quando andavo in certi posti pensavo “ci devo poi venire da solo qua”, perché per me per conoscere le cose veramente, bisogna starci zitti dentro e osservarle come dei ladri di nascosto, per conquistarne una sorta di magia. Ero già stato in silenzio nel pollaio ed avevo capito che quelle galline che c’erano dentro, quando la gente se ne andava via, riprendevano a vivere come se la recita fosse finita. Ed ero stato in silenzio di nascosto nella camera da letto dei miei genitori, accorgendomi che i vestiti senza padrone che erano appoggiati sul letto o infilati con cura dentro l’armadio, iniziavano a muoversi da soli, come se fossero posseduti da qualche entità estranea. Nella mia testa si era fatta strada l’idea che a stare da solo avrei conosciuto il mondo per davvero, preoccupandomi solamente delle cose vere e lasciando perdere le persone e le loro ingiunzioni.

Quell’angolino dietro la chiesa, dove c’erano i fiori, dove spesso le persone non si fermavano a causa dell’ombra che gelava tutto quanto, era diventato un luogo che io avrei dovuto vedere da solo. Mi bastavano dieci minuti, non di più, tenendo conto che comunque sia avrei recuperato il tempo perso correndo verso casa per i campi, alzandomi bene i calzoni e togliendomi le scarpe per evitare che tutto venisse inzaccherato dalla terra umida. Così quando tutti iniziarono ad andarsene, dopo l’interrogatorio di Don Luigi, io mi nascosi dietro ad un grosso vaso di ceramica, bello grosso con dei fiori di lavanda che fuoriuscivano tutti fuori, attirando l’attenzione delle api. Nemmeno mi resi conto che se n’erano andati via tutti; quel ronzio continuo di api mi aveva confuso la testa. Me le vedevo girare attorno come operai o manovali durante il picco del lavoro settimanale, stavo entrando nel segreto del posto. Le osservavo con attenzione e mi distraevo di continuo perché passavo da un esemplare ad un altro in base al tipo di mansione che stava svolgendo. Poi d’un tratto le api vennero spazzate via da un colpo di vento, anche i miei capelli si spostarono tutti quanti come se qualcuno ci avesse alitato fortissimo accanto. Persi l’equilibrio e finì a terra, feci un bel tonfo e quando mi girai mi trovai davanti un asino. In quell’angolino di spazio ero stato scovato da un asino, bello con le orecchie dritte che scacciavano con dei colpetti le mosche che tentavano di infilarsi in mezzo alla peluria. L’asino se ne stava lì davanti a me e mi fissava coi suoi occhioni giganti marroni, con un filo di commozione che gli colava da un lato della palpebra. Mi tirai subito su alzandomi in piedi, mi ricomposi per bene quando ecco che dalla sua bocca uscì questa cosa qua.

–        Ciao

Così mi disse, muovendo le labbra così bene e con un controllo così ben fatto della voce che io, appena lo sentì ci guardai dietro la groppa per capire se ci fosse qualcuno oltre a lui. Ma dopo esserci anche girato attorno per accorgermi che non c’era nessuno, io dentro di me provai un po’ di paura. L’asino se ne stava ancora lì fermo come se stesse aspettando una mia risposta. La paura fu così tanta che decisi di muovermi per non lasciare al silenzio troppo spazio. A quel punto mi avvicinai e gli diedi una carezza, passai per bene la mano sul suo mantello e dopo essermi sincerato che non fosse cattivo o agitato iniziai a parlare con lui

–        Ciao, ma mi hai parlato te?

–        E chi se no? Siamo solo me e te qua…ti sembra che ci sia qualcun altro?

–        Non lo so, non ho mai sentito la voce di un asino. Gli asini non parlano solitamente

–        È vero che gli asini non parlano, ma io si

–        E perché scusami, tu perché parli? Sei un asino speciale? Sei di quelli di Meneghetti, che ha detto che fanno il latte meno denso del solito?

–        No, io sono Dio e non faccio latte perché sono maschio e non un’asina

Dopo quella espressione io mi ritirai un attimo, ero ancora piccolo e mi scendeva il mocco dal naso, avevo ancora nella testa un mucchio di pensieri e nonostante io fossi incredulo a quello che stavo vedendo, dentro di me in fondo pensavo che quell’animale era solo il frutto della mia fantasia. Quello fu uno dei primi pensieri da grande che riuscì a fare. Pensai di stare al gioco e decisi di mollare quella durezza che avevo dentro di me per affrontare il momento come se fosse una cosa normale, da fare.

–        Vediamo, perché scusa dovresti essere Dio?

–        Perché te lo dico io, io sono Dio. E so come ti chiami. Te ti chiami Wainer Marescotti e c’hai sette anni.

–        Urca! È vero. Com’è possibile che tu sai queste cose?

–        Perché io sono Dio, so tutto e so tutto prima e dopo di te. So quello che ti capiterà ancor prima che ti capiti. So quello che capiterà a tua mamma, a Don Luigi o alla formichina che sta lì vicino al muro per cercare qualche traccia di pane

–        Perché sei venuto qua? E poi perché sei un asino?

–        Io son venuto qua per dirti certe cose importanti. E sono un asino perché nessuno deve sapere che io ti ho detto queste determinate cose

–        Ma io le racconterò tutte le cose, e dirò che me le hai dette te in persona!!! Le dirò tutte quante

–        E pensi che crederanno ad un bambino che dice di aver parlato ad un asino che si pensava Dio? Non ti crederà nessuno. Per questo motivo io cerco certe forme divertenti. Perché così le persone terranno per sé quello che gli dirò ed eviteranno di far la figura dei pazzi con gli altri…

–        Ma che cosa vuoi dirmi, è una cosa grave quella che mi devi dire?

–        Sta ben attento, vieni qua vicino che te la dico per bene adesso

L’asino rimase piantato coi suoi zoccoli sul ciottolato mentre io che gli ero distante circa un metro mi avvicinai, feci piano per paura che scattasse di soppiatto. Margherita si era presa una zoccolata in faccia da un puledrino e c’aveva tutta la faccia storta; pure mio padre Tony mi diceva che a lui i cavalli e gli asini non son mai piaciuti perché calciano all’impazzata quando gli va di farlo, senza dare nessun preavviso. Quando ci arrivai proprio vicino al muso, ecco che lui fece un raglio, così forte da farmi malissimo all’orecchio. La testa mi vibrò tutta come se fosse stata passata da parte a parte da una spada. Mi tappai le orecchie e aspettai che mi passasse il fischio, poi quando alzai nuovamente lo sguardo trovai l’asino nella stessa posizione, mentre ruminava qualcosa dentro la bocca

–        Scusami se ho fatto il verso ma devo farlo ogni tanto. È un bisogno che ho di asino, non riguarda me, ma il mio corpo che ha bisogno di fare i versi e tutto il resto che fanno gli asini…comunque ascolta qua. Tu arriverai ad un giorno della tua vita, tra gli ultimi di questa esistenza, in cui poco prima di morire, ti troverai disteso su di un letto. Ascoltami bene. Ci sarà una mattina in cui avrai male a tutto il corpo ma non sarai in grado di capire per bene, e ci sarà un sole bello, bellissimo; ti sembrerà di aver davanti il sole più bello di tutta la tua vita. Ti ricorderai queste mie parole perché quella bellezza tutta in un istante ti riporterà ad oggi e capirai a cosa mi sto riferendo io, che sono Dio e conosco tutta la bellezza che c’è nell’universo intero. Mica solo al mondo. Verrà vicino a te tua moglie, e tu, quello che dovrai fare è dirle tutta la verità: ringraziala per averti dedicato il suo tempo. Fai solo questo, e infine dille “grazie amore” e vedrai che io sarò riconoscente con te. Te lo prometto  

Un lampo e tutto scomparve, io rimasi esattamente nello stesso punto in cui avevo parlato con l’asino. E fu da lì che le cose cambiarono per sempre per me. Dopo quel giorno le vicende della mia vita accaddero ad una velocità impressionante. Dentro di me quella voce di Dio si era infilata come fosse un’ossessione a cui non sapevo più fuggire. Non facevo altro che pensare a cosa mi sarebbe accaduto, dimenticandomi del presente e di tutte le vicende a cui dovevo fare conto realmente…Se andavo a pescare io durante il tragitto pensavo a quelle parole dette dall’asino, a quelle mosche che gli volavano attorno e a quel cielo coperto, a quelle api lavoratrici, a quegli odori di incenso e lavanda, alla sua bocca e a quei dentoni grossi e bianchi. E di tutta quella vicenda, più passava il tempo, più aumentava sempre di più la mia ossessione. Ci provai anche a dire ad alcuni che io avevo parlato con Dio per cercare di essere compreso, ma tutti, quando mi chiesero in che modo, e si sentirono dire da me che Dio era un asino, si mettevano a ridere mandandomi a quel paese.

Arrivò il mio matrimonio con Beatrice, proprio la mia vicina di casa che mai avevo considerato fino al giorno in cui passeggiando di ritorno dai campi lei mi fermò e mi chiese “avete fatto la pesca delle anguille quest’anno?”, quelle sue parole si misero proprio in mezzo ai pensieri che avevo dell’asino parlante, facendomi dimenticare per un’istante cosa mi era accaduto. L’asino parlante, così lo avevo chiamato togliendogli l’appellativo di “Dio” perché la vicenda l’avevo oramai resa nota a chiunque, e siccome passavo grandi ore a pensare a quella storia, chi mi vedeva meditante diceva “pensi all’asino parlante?” per evitare di offendere il nome di Dio. Anche Beatrice me lo chiedeva quando mi vedeva assorto, e io che oramai non ci avevo più speranze mi limitavo di far di sì con la testa, tornando subito a quei rumori, a quegli zoccoli, a quelle vocali aperte e quegli occhioni di asino impossibili da ritrovare negli altri asini. Ma la vita mi ha dato anche un figlio a cui ho insegnato quel che sapevo, appesantito perennemente da quei pensieri che arrivati ad un certo punto iniziarono a distrarmi dal mio compito di uomo. Lavorai per i campi quarant’anni, feci bene io credo.

E poi ecco, che ad un tratto tutto iniziò a rallentare come se l’orologio perdesse qualche secondo dal suo ritmo costante; nella mia testa giorno dopo giorno si aprirono delle fessure di spazi bianchi in cui nessuno era mai stato, nemmeno io. Iniziai a dimenticare un poco alla volta le cose: dapprima il nome degli odori che sentivo e poi con il passare del tempo anche i nomi delle piante, delle vie, di mio figlio, fino ad arrivare a me. Chi ero io? Chi era questo Sebastiano che veniva e mi abbracciava dicendomi “Pà dovevi vedere quanto era bella Istambul”. E poi lei, Beatrice; vedevo questa donna passare per casa indaffarata in qualsiasi tipo di faccenda, e ogni tanto dirigersi verso di me dicendomi cose deliziose e carine a cui io non sapevo rispondere, se non con un imbarazzo genuino, che mi faceva arrossire dentro. Poi quel gran bianco lasciò spazio ad un buio che spazzò via anche le luci del giorno, persi la vista incredibilmente in meno di una settimana. La mia malattia avanzava con una velocità impressionante, non avevo compiuto ottant’anni quando eccomi arrivato al letto, disteso ma sorprendentemente tranquillo, in pace. Non parlavo più, la mia bocca s’era asciugata di tutte le parole che avevo imparato nel corso della vita; non c’era più posto per quei suoni e quelle dichiarazioni, tutto si era raffinato così tanto che la sola cosa che io desideravo era quella di riposare ancor di più, meglio, meglio ancora di come già stavo facendo. Poi un giorno stranamente Beatrice aprì le finestre ed io aprendo gli occhi, come fossero dominati da altre forme di volontà, mi trovai di fronte la luce di una vita intera. Ecco che il sole aveva un colorito così forte e raggiante da infondermi una forma di speranza, ma non una speranza di salvezza o di guarigione, quanto più una speranza riguardo a quello che sarebbe accaduto senza più me. I miei occhi riuscirono a cogliere la luce e pochi altri colori dentro la stanza, quella mattina fu per me il momento più incredibile di tutta la mia vita. Pur non avendo coscienza di niente mi trovavo così denudato da ogni pensiero, che vivevo con grande gioiosità ogni cosa che mi capitava addosso. Beatrice mi portò una bellissima colazione su di un vassoio, mi sforzai di mangiare pur non avendo appetito e sapendo che ogni boccone poteva rappresentare per me la fine di tutto. Ma mi sforzai e dopo aver mangiato un piccolissimo pezzetto di biscotto riuscì a sentire il sapore del limone che era stato usato come ingrediente; era così sottile e discreta quella punta agrumata che mi risvegliò la voglia di annusare il mondo con tutti i miei sensi. Ripresi contatto con il mio corpo rimettendo in moto tutta la macchina, posizionando il mondo al centro delle mie funzioni. Sentì nitidamente la vita come una macchina che non ha mai smesso di funzionare, con i suoi rumori di sempre, i suoi chiassi cittadini ed i suoi odori di smog e di caffè, andare e venire dalle mie narici. E poi ecco, lei, Beatrice, che tornando con in mano una piccola siringa mi guardò serenamente facendomi un sorriso tenero, trattenuto dalle labbra stiracchiate dalle sue guanciotte. Mi venne vicino, ma io non seppi che dire, non ricordavo più alcuna parola, dentro di me stavo vivendo un film di immagini in rapida successione che non mi permetteva di soffermarmi per capire, custodire e declinare il tutto in un solo pensiero. Beatrice mi infilò l’ago dentro il braccio ma non sentì nulla, solo la continuai a guardare sereno e felice d’essermi goduto una luce improvvisa, così degna di essere chiamata Luce. Poi le sue mani si misero dietro la mia testa e mi sollevarono un poco il collo per fare spazio ad un cuscino bello largo che subito mi venne infilato dietro. Ero comodo così, e anche se non potevo riconoscere con esattezza tutto il concetto di comodità, sapevo che quel gesto era un bel modo per rendermi confortevole il riposo. Lei si alzò ed andò via lasciandomi solo, ancora irrorato di luce e di aria; nel pieno di un qualsiasi giorno della settimana. Fu lì che io ricordai, proprio in quell’istante in cui nessuno e niente mi furono attorno, fu lì, proprio in quell’istante che ricomparve davanti a me ciò che io ero da piccino. Ricordai la mia passione per quei momenti di silenzio lontano da tutti. E sempre aggrappandomi a quell’immagine, in lontananza riuscì a sentire il raglio dell’asino venirmi incontro. Ecco la mia missione! Ma la luce tutta d’un tratto scattò come se l’otturatore di una macchina fotografica si fosse chiuso per immortalare un particolare. Tutto tornò nero ed io che ancora avevo in mente il raglio dell’asino mi feci un poco avanti con il corpo, cercando in tutti i modi che qualcuno mi venisse incontro per ascoltare. Nemmeno più sentivo, le orecchie mi si chiusero come tappate da qualche ingorgo, la vita stava per uscirmi dalla bocca chiudendo un poco alla volta tutte le saracinesche di questo corpo. La mia bocca s’incurvò tutta quanta, e fu proprio in quel momento che nemmeno sapendo cosa mi stava per accadere, aprì la bocca e dissi “Grazie del tuo tempo…arrivederci amore”. Cadendo come se quel letto non esistesse più e non ci fosse nemmeno più alcun tipo di corpo da farmi tonfare a terra…precipitai diritto come una pera dentro il centro di un qualcosa.

Questo è quanto io mi sento di raccontarvi, questo mio modo di essere angelo mi è costato davvero tanto. E io non saprò mai cosa mi rispose Beatrice a quelle mie parole, io non saprò mai cosa accadde dopo…Chissà cosa dichiararono quelli che vennero davanti alla mia tomba? Chissà se hanno detto qualcosa riguardo all’asino parlante? Chissà cosa sarebbe accaduto se l’asino non mi avesse mai parlato? Sono delle domande, forse queste? Ora è meglio che vada a volare là, oltre Nirano, per starmene in compagnia di quelle scolaresche in gita alle salse…

 

 

 

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