Piccola storia impossibile di ladri, stradoni e fatti inconcludenti
Rubrica di Francesco Menozzi
Racconto pubblicato il 29/11/2022
Ogni volta che raccontiamo una storia ci sentiamo portatori di una testimonianza di vita, che sia la nostra o quella di qualcun altro o che sia una storia mai accaduta, inventata; la vicenda detta come va detta, riguarda noi tutti esseri “urlanti”. (F. Menozzi)
Chiunque può partecipare alla rubrica inviandomi disegni, opere, fotografie da inserire all’interno dei singoli episodi per commentare con un’immagine o un’idea quello che la storia gli ha ispirato. Potete inviare il materiale alla mia mail francescomenozzi55@gmail.com . Sarà mia premura inserire il materiale e citare la fonte.
Ecco l’elenco di tutti i racconti di Francesco Menozzi che abbiamo pubblicato nella nostra rivista:
- La prima notte a Modena
- Un sottile filo rosso
- La ragazza carmina
- Anche Dio ha le sue ragioni che non vanno sottovalutate
Buona lettura.
Di sicuro non mi sono riposato! I rigattieri non riposano nemmeno il venticinque! Ho dovuto far scendere dalla macchina le quattro bamboline di carta pesta turche, il trattore e le due compagnie delle indie che stavano per concludere un accordo sull’esportazione di canna di bambù dai Caraibi all’Olanda. Ho messo tutto fuori nel giardino, come fosse in vendita della roba fresca, appena sfornata…è volata un’aria più calda, nonostante sia novembre, che sembrava di essere a New York con tutti quei robi colorati, mentre io ci camminavo in mezzo fumando come un divo del cinema. Ma nessuno è passato a farmi un’offerta; non è un modo di fare che abbiamo qua noialtri, son gestioni del commercio che vengono dall’altra parte del mondo queste. Adesso faccio fatica a mettere le cose che recupero dentro il capannone immediatamente, aspetto come un uccello appollaiato sul muretto, vorrei che qualcuno passasse e allungasse il collo, si sporgesse fino quasi a spaccarselo, e mi facesse un’offerta. Ma non succede perché oramai le persone vanno alla ricerca del nuovo, stanno iniziando a voler primeggiare in qualcosa che non saprei definire; vivono come un ballo in maschera!
Volevo dire una cosa. La cosa più grande che son riuscito a recuperare – o quasi – in vita mia è stata un uovo, un bell’uovo, grosso quanto una cabina telefonica! Pesante almeno sessanta chili o giù di lì, forse molto di più. Quel pezzo era così bello, tondo, bianco, difficile da muovere, che solo dio sa quanto ci ho voluto bene, per quel poco che l’ho avuto tra le mani. Io che ora vendo solo robetta racimolata dalle case abbandonate, o se mi va bene, in qualche solaio da liberare per la disinfestazione, quando qualcuno mi chiede perché continuo a fare il rigattiere io gli racconto la storia dell’uovo di elefante.
Eravamo piccoli, piccolissimi, certuni non erano nemmeno distinguibili ad occhio nudo. Io fortunatamente ero un ragazzo di tredici anni perfettamente conforme ai ragazzi della mia età, anche se non tutti lo erano, che sia ben chiaro! Certuni avevano le terapie ormonali portate dai laboratori svizzeri, e dio sa solo di quanti peli pubici sette mesi dopo l’intera cittadina è stata sommersa. Avevo i miei impegni durante il giorno anche se non andavo a scuola; quell’anno c’era stata una brutta influenza che aveva obbligato le scuole a restare chiuse per almeno tutto il secondo semestre. I miei mi avevano dato dei compiti per tenermi occupato durante il giorno, sapevano che noi ragazzi se non venivamo messi sotto torchio ci infilavamo sicuramente in qualche guaio. Così io a partire dalle sette di mattina avevo una serie di lavoretti: preparare la colazione a mia sorella Ermete, stendere la roba dentro il secchio, dare da mangiare ai polli, spazzare l’uscio e il corridoio, pulire lo studio di mio padre e altri cinque o sei impegni minori a cui dovevo badare. Sapevano per bene che a farmi marciare dritto non si correvano rischi, o perlomeno si sarebbero ridotti al minimo. Difatti io e il mio amico Arturo Balestrieri che all’epoca abitava proprio accanto alla mia casa, in via Forlani 22 a Bastiglia, avevamo questa passione nel rivendere cose che trovavamo in giro; facevamo qualche soldo che ci serviva per comprare le cicche, ami da pesca, colpi per la carabina e altre cosette che un tredicenne comincia a sentire il bisogno di avere. Arturo faceva il lavoro sporco, gironzolava per le case con la sua faccia d’angioletto e chiedeva se le persone avevano bisogno di liberare cantine, garage, androni sommersi da qualsiasi tipo di immondizia. Io mi limitavo a sollevare qualche bidoncino dell’immondizia per controllare i contenuti; di sicuro non era nobile quanto quello che faceva Arturo, ma io son sempre stato timido e piuttosto che andare in giro a chiedere alla gente cose private, preferivo mettere le mani dentro le spazzature. Alle volte ci andava male, molto male perché trovavamo di tutto: ciocche di capelli di misteriosa provenienza, pezzi di armadi così tarlati da farci venire i “pruriti” al sol muoverli, sacche piene di resti di gite in campagna andate a male, veri e propri corsi di scrittura in aramaico ancora incellofanati. Ma la soddisfazione nel trovar qualcosa di valore era talmente grande che ci faceva dimenticare il resto; e capitava, non spesso, ma capitava, che riuscivamo a trovare cose di un discreto valore: specchi con stendardi barbarici, fischietti per folletti del deserto, ami da pesca per pesci nascondino, piccolissime pietre di vetro blu incastonate dentro a posate in ottone. C’era soddisfazione nel trovare cose che noi non pensavamo potessero esistere, e che poi ci venivano comprate con del denaro; avevamo un entusiasmo simile a quello dei vincitori della tombola. Quando brillava qualcosa in fondo ai mucchi di macerie, noi subito dicevamo: – “Oh oh, a go truvè quel cos” – ho trovato qualcosa. Poi si tornava prima di cena facendo lo stradone a lato delle case, per evitare che i miei ci vedessero; trascinavamo i nostri sacchi pieni di piccoli tesori nello scantinato di Arturo facendoli rotolare con delicatezza verso la fine della stanza, nella zona più buia dove solitamente nessuno s’azzardava ad andare a causa dei topi.
I miei detestavano questa passione, sostenevano che in un modo o nell’altro avrei rovinato l’immagine della famiglia, soprattutto quando mi mettevo a infilare le mani nelle spazzature – chissà cosa avranno pensato i paesani – mi vien da dire oggi. All’epoca ero sicuramente più ignorante ma felice, e temo ma non ne sono certo, che queste due cose messe insieme, l’ignoranza e la felicità, possano generare un mucchio di disastri nel mondo. Mio padre era un ragioniere che lavorava per la ditta Mercalli, si occupava di ottovolanti per parchi giochi, ma stranamente in quel posto tutto era serio, serissimo, e c’era poco da ridere. Quando si entrava per la porta dell’ufficio bisognava camminare come se uno c’aveva un paletto conficcato nel culo; le gambe chiuse c’era stato detto che davano un’aria nobile.
Tutti rischiavano d’essere licenziati in qualsiasi momento dal presidente Massimo Respighi, il faffetto lo si chiamava a causa di un difetto di pronuncia che gli faceva soffiare via certe consonanti mentre parlava. Ma il faffetto detestava che i dipendenti avessero famiglie disordinate, così ogni settimana estraeva da una cesta il nome di un dipendente da cui andava a far visita, per capire se quella disciplina tanto rigorosa che bisognava tenere sul posto di lavoro, veniva rispettata anche fuori. Noi tutti a casa quando entrava faffetto stavamo in piedi ascoltando bene quello che aveva da dirci, si strofinava spesso la mano sul labbro e poi ci guardava. Aspettava un passo falso, che ne so uno starnuto senza tenere la mano per coprirsi il naso, che ecco, subito spediva la lettera di licenziamento. Ho sempre pensato che quell’uomo di fronte a certi disordini sarebbe stato in grado di uccidere. Che ne so, uno starnuto sguaiato ed una mancata ammissione di colpa. C’era una tensione, che brutti momenti si passava col faffetto in casa.
Per questo motivo io a casa non ci potevo portare niente dei miei tesori, così mio padre ogni volta che sapevamo della visita, mi controllava per filo e per segno tutta la cameretta; sudava e tossiva come se nel fare quella cosa a lui venisse una malattia. Era una patologia che gli cambiava il colore della pelle, diventava scuro come di un’altra nazionalità, e più si piegava per controllare sotto il letto, o dietro la scrivania, più le sue guance si gonfiavano fino a diventare dei piccoli palloncini rossi. Papà era motivato, ne aveva da tenere conto.
Ma quello che accadde fu sorprendente. Una mattina io e Arturo, proprio durante la pausa scolastica, andammo dalla signora Ermelinda che aveva un piccolo negozio di alimentari proprio alla fine del paese. Tutti le volevano male a quella donna perché si diceva che lei aveva nascosto dei soldati nemici durante la guerra, e si diceva inoltre che con uno di quelli ci aveva fatto l’amore ininterrottamente per un mese. Questa cosa aveva sollevato l’ira di molte donne che all’epoca avevano tutti i mariti impegnati al fronte, e non sapevano come fare. A me e ad Arturo non importava, ci aveva chiamato per liberare il retrobottega sapendo che ci interessava mettere le mani e rovistare. Arrivati ci fa entrare nel negozio che sa di pane caldo appena sfornato, c’era tutto il legno anche sulle pareti, era un bel posto mi ricordo. Raggiunti il retro entriamo in un cortile e subito notiamo che in fondo allo spiazzo c’è un cumulo di oggetti ed un telone nero di fianco che copre qualcosa di grosso. Ci fiondiamo subito noi, non aspettiamo alcuna indicazione, Ermelinda si mise le mani sulle guance come spaventata, perché temeva chissà cosa, vedendoci correre spediti come soldati verso il telone. Poi quando siamo arrivati lì davanti abbiamo scoperto un poco il telo e trovato questa bella superficie liscia e bianca, così ben preparata e levigata che ci siam subito chiesti da dove poteva provenire un oggetto simile? Arturo che se ne intendeva più di me si abbassò per capire se vi fossero dei piedi che reggevano quella superficie così sinuosa, pensava fosse un tavolo secondo me. Così abbiamo chiesto a lei, ma lei che è voluta rimanere distante ci ha guardato sempre con le mani sulle guance e con un piccolo gesto ci ha fatto segno di scoprire il telone del tutto. Noi lo scopriamo ed ecco che vediamo l’uovo. Gigante, appoggiato o forse meglio adagiato su di un fianco, quale fianco poi non saprei dire siccome l’uovo non presenta punti specifici che ne definiscono la struttura. Dire la destra dell’uovo è impossibile, o dire anche la sinistra, mentre è possibile definire il sopra e il sotto secondo le classiche convenzioni. Il sopra ha il diametro più piccolo mentre il sotto quello più grande. L’uovo è l’uovo, come forma geometrica, ovale. Uovo. Arturo tira due picchetti e sente che dentro non c’è riverbero, sembrava pieno, era bello pieno quell’uovo. Io e Arturo abbiamo iniziato a girarci attorno interessati, cercavamo di capire ma non avevamo idea della sua natura. L’uovo era bianco e non marrone, e questo ci mise un po’ in difficoltà subito, lì per lì. Così dopo averci fatto almeno quattro giri tentando di scoprire se non ci fossero crepe o segni particolari, Ermelinda ci raggiunse e ci disse che quello era un uovo di Elefante gigante. Arturo si soprese, fece un passo indietro e disse: -“Impossibile, qua di elefanti non ne sono mai passati. semmai nell’antichità. in più te come fai a sapere che è d’un elefante? dove sono le impronte?”
A quelle domande Ermelinda rispose rapidamente con il suo tono duro di donna che sta dietro al bancone: – “Ascoltami, quest’uovo me l’ha mandato il comandante Meikermejer per sdebitarsi dell’amore che gli ho dato…”. Ho pensato che Ermelinda ci doveva aver dato tantissimo amore a quell’uomo per aver ricevuto quell’uovo. -“Me l’hanno portato con la camionetta militare, oramai ha cinque anni. Ma mi hanno detto che vanno lenti nella maturazione, e sicuramente è ancora buono. Il comandante me l’ha inviato per farci i tortellini, sapete quanti ne posso fare con questo tuorlo?”
Ermelinda voleva che gli togliessimo l’uovo dalle scatole, perché lei la settimana dopo avrebbe aperto anche la parte dietro per farci entrare i fattorini, siccome fino a quel momento dovevano passare per l’ingresso sporcandoglielo costantemente. Arturo e io ci mettiamo a ragionare, cerchiamo di capire come fare per spostarlo; erano le dieci e mezza del mattino e c’era un bel sole ma noi non ci fregava niente, dovevamo capire come far arrivare alla cantina di Arturo l’uovo senza che nessuno ci vedesse. Già perché con ogni probabilità se anche solo una persona avesse visto l’uovo, in men che non si dica le voci si sarebbero sparse, e ce l’avrebbero tirato via dalle mani per darlo alla scienza, agli scienziati che l’avrebbero studiato. Così decidemmo di avvolgerlo tutto dentro il telo, ma come?
Ermelinda ci mise sotto delle piccole assi di legno, noi abbiamo appoggiato il telo sopra le assi e poi, con molta calma, ci abbiamo fatto girare l’uovo sopra come fosse un involtino. Si doveva far piano e trattare l’oggetto come fosse di vetro, di cristallo. E con estrema fatica, stando bene attenti ai movimenti, noi eccoci con l’uovo vestito, pronti ad andare via.
Ci siamo guardati bene attorno, abbiamo aspettato che la chiesa smettesse le campane delle undici, undici battiti interminabili mentre noi eravamo lì, eccitati e duri coi muscoli a evitare che l’uovo ci scappasse di mano. Ermelinda nel frattempo tornava dentro a servire ai clienti che si stavano spazientendo, diceva che c’erano i lavori nel retro, lo faceva per coprirci, anche se le persone che allungavano il collo ci riconobbero subito. E tutti ci salutarono, quel giorno salutarono tutti, anche Maria Vescovi che spesso la si trovava al cimitero a parlare coi morti, anche il buon Valerio Melati che in paese aveva ricevuto la targa del più “braghero” – pettegolo. Dopo questo giro di giostra, dopo che tutti smammarono per tornarsene a casa eccoci, me e Arturo con la Ermelinda che diceva presa da un’ansia particolare: – “Mio Dio, rimettete via l’uovo…turnev a cà” – tornate a casa. Ma noi eravamo lì, eccitati e duri coi muscoli a evitare che l’uovo ci scappasse di mano, e tutto avevamo in mente fuorché lasciare il “coccone” nelle mani di altri più furbi. Arturo si mise davanti e stringendo forte il telone riuscì a farlo rotolare per bene dentro il negozio, facendolo passare per la porta del retro che era molto grande. Poi eccolo che rotolato dentro, quel mostro in quel piccolo spazio sembrava ancora più mastodontico e impressionante. Ma per farlo uscire dalla porta di ingresso avremo dovuto metterlo in piedi, siccome la porta era così stretta che a malapena ci passava il pancione di Armando Gatti, figuriamoci quello del nostro uovo di elefante gigante.
Arturo ebbe un’idea, tornò a casa per recuperare degli arnesi che ci avrebbero aiutato. Nel frattempo io rimasi con l’uovo a meditare, anche se a dir la verità non pensai a nulla. Quando tornò tirò fuori dalla sacca una serie di oggetti, poi iniziammo ad avvolgere delle corde attorno all’uovo creando tre cerchi distinti: uno sulla parte superiore collegato ad un altro nella parte mediana a sua volta collegato ad un altro nella parte inferiore. Questa piccola bardatura ci permise di fissare l’estremità bassa della corda ad una trave di legno che teneva in piedi l’edificio, mentre l’altra estremità cercammo con tutte le nostre forze di tirarla per condurre l’uovo ad una posizione eretta. Ermelinda sembrava entusiasta della preparazione, Arturo era un bel tipo che la sapeva lunga e vederlo mettersi all’opera era sempre uno spasso; ogni cosa che faceva era tutta ingegnata nella sua testa. Le sue mani erano perennemente sporche, insozzate di qualche materiale adatto a sistemare le cose nel loro cuore; e anche se se le lavava sotto il lavandino, quasi come fosse un miracolo, dopo nemmeno un minuto, le sue mani erano nuovamente sporche di quelle sostanze scure, grasse, che lerciavano i vestiti così tanto da doverli buttare via.
Iniziammo a tirare e l’uovo iniziò a dondolare, il suo movimento ci fece spaventare così subito ci fermammo; tutto il pavimento s’era come messo a vibrare come fosse stato calpestato dalla zampa di un elefante. Poi Arturo assicurò un’altra corda alla sommità dell’uovo per tentare di fissare ancora meglio il punto di tiro, nessuno ci poteva fermare, eravamo zitti e intenti nel fare un lavoro come si deve. Ermelinda per incitare i movimenti iniziò a dire: -“Ohhhhhissà!!!” ogni volta che entrambi tiravamo forte l’uovo facendolo oscillare come fosse un oggetto magico dotato di una sua gravità.
Tiravamo così forte da far muovere il “coccone” da un lato all’altro del negozio, senza renderci conto che nel danzare così tanto in uno spazio così ristretto, stava distruggendo delle mensole con delle cibarie sopra, e incrinando la trave su cui era fissata la parte bassa della corda. Ma noi eravamo così presi che quel rumore ci faceva dimenticare tutto, l’uovo così grosso in movimento era già uno spettacolo di per sé. Fu a quel punto che tirammo così forte, presi da uno slancio di entusiasmo, che lo riuscimmo a mettere in piedi. In quell’istante Ermelinda rimase ferma impalata dietro al suo bancone, Arturo lasciò le corde senza darmi idea di quello che stava capitando. Tutto si bloccò, il tempo si fermò come se le lancette dell’orologio avessero timore nell’andare avanti o nel tornare indietro. Girai un poco lo sguardo e vidi che la trave del negozio era staccata e che l’uovo stava per dondolare nuovamente, ma questa volta verso di noi. Arturo si spostò in tempo scappando dal negozio, ma io, io, che mi trovavo proprio lì sotto mi accucciai tutto e quando vidi l’uovo venirmi incontro pensai alla mia morte. Ai titoli di giornale “Schiacciato da un uovo gigante. Michele Mori ci lascia”, e pensai in quel lasso di tempo così ristretto a mia madre e a mio padre, a quante domande si sarebbero fatti nel capire le dinamiche dell’incidente. Feci così tanti pensieri in così poco tempo che quando mi cascò l’uovo addosso, io ero ancora lì che stavo pensando alla mia morte e non mi accorsi che l’uovo si frantumò completamente, inondandomi totalmente del suo contenuto.
Da quel giorno in poi io e Arturo non ci parlammo più, nemmeno so le ragioni precise di questa cosa. Forse qualcosa si è rotto oltre all’uovo o forse quell’uovo rappresentava per lui qualcosa di importante, che gli fece cambiare idea sulle cose, persino sul mondo secondo me. Nel tornare a casa, nel pieno della sera, si fece silenzio e non si disse niente, io ero completamente sporco di uovo, camminavamo come due faccendieri che hanno da pensare ognuno al proprio gregge; passo dopo passo si stava definendo una distanza a cui io non ero abituato. Arrivati alle proprie porte ci girammo un attimo; lui era lì davanti al suo uscio che mi guardava con uno sguardo simile a quello di uno che ha perso la sfida più importante della sua vita. Io gli feci un sorriso faticando a muovere anche solo i muscoli della faccia, siccome l’uovo seccandosi mi aveva tirato la pelle così tanto, che quando poi mi dovetti lavare, certe parti del tuorlo le dovetti strappare via dal mio corpo come se mi fossi fatto la ceretta. Ci guardammo un’ultima volta sollevando un poco il mento e poi finì così, l’amicizia nostra. L’edificio di Ermelinda qualche giorno dopo crollò, sotterrando la buona Ermelinda al suo interno mentre stava servendo delle ottime tagliatelle. Tutto il paese non capì niente, le donne dissero che Ermelinda se lo meritava, che avrebbe dovuto non farle certe cose.