Editoriale Millecolline. Mi ritorna in mente quando si viveva all’antica

Editoriale

L’Editoriale Millecolline

Pubblicato il 29/05/2022

 

Mi ritorna in mente quando si viveva allantica

Tra le mie tante manie da studioso, sono un collezionista di libri di testo per le scuole elementari (Sussidiari, libri di lettura e libri delle vacanze dalla fine dell’Ottocento fino agli anni cinquanta e dei giornali e riviste, libri di autori importanti d’epoca dai primi del secolo scorso). Una vera passione che mi ha e mi aiuta a fronteggiare l’epoca buia e disordinata che stiamo vivendo.

Ho sempre considerato questo ricco patrimonio come la mia fortezza, le mie frecce “avvelenate” contro, soprattutto, l’ignoranza, le vanità, i pregiudizi, le arroganze, le menzogne, le post verità. La mia armeria è a difesa del Castello della Vita, sempre più minacciato dalle mode correnti e ricorrenti, dalle superficialità, dai consumi commerciali e standardizzati, dalla continua spogliazione della propria identità, delle proprie origini e radici tradizionali e culturali., nel nome dei vari guru improvvisati ma incantatori sul condizionare il genere umano sul niente, sulle ingannevoli visioni non del pensare ma dell’emozionarsi.

Più che camminare sentieri di conoscenza, di esplorazione, di relazioni interpersonali e comunitarie, si vive come in un acquario in cui ogni giravolta ci sembra di volare e di esaudire ogni nostro desiderio. Insomma vogliamo vivere in un mondo ovattato, senza rischi e senza vincoli. Un mondo fatto di slogan, di frasi consolatorie, di messaggi permanenti con le faccine sorridenti e di striscioni volanti.

Un paese dei balocchi, un bel paese di ben godi. Ma la cosa più deprimente è che tutti pensiamo allo steso modo, tutti desideriamo le stesse cose, tutti vogliamo divertirci, tutti siamo omologati, uniformi, appiattiti e tutti capiamo allo stesso. Il grande mentore, il grande Fratello, i mass media sono riusciti con l’esercito dei loro servi ripetitori, complici e privi d’intelletto, a pianificare le nostre vite ed a renderle inutili, come il famoso “vuoto a perdere”.  Il futuro sarà basato su queste costruzioni di sabbie o valvoline? Possiamo sentirci rassicurati che alla fine tutto imploderà e finalmente apriremo gli occhi, diventeremo tutti degli apota (coloro che non se la bevono)? Non credo, ne sono sicuro. La strada dell’involuzione e del disastro è stata segnata, programmata, definita per i prossimi secoli.

Ed ecco la mia costruttiva nostalgia: quella di poter ritornare a vivere all’antica, senza pensare all’Ottocento, ma alle generazioni degli quaranta e cinquanta, quando ancora i pini odoravano di pino, il mare sapeva di mare, l’aria , a cambiar delle stagione diffondeva i profumi della natura e ci ricordava che i frutti, le verdure, gli ortaggi, erano in attesa di arrivare sulle nostre tavole per una rigenerazione dei gusti, delle vitamine, delle bellezze creative della mutevolezza delle nostre rinomate coltivazioni.

Vivere all’antica senza censure di improvvisate consorterie o di minacciosi divieti per obbligarci a regimi alimentari privi di saggezza e di riscontri scientifici. Ma non è questo il vero motivo. Quando si pensa ad una certa epoca, un certo tempo, meno condizionato dai progressi dell’industrializzazione o dalle ansie tecnologiche, si vuole evidenziare un certo modo di vivere, un certo modo di avere educazione, cultura, comportamenti ed un certo rispetto verso gli altri e verso le cose che ci arredavano e completavano la nostra esperienza e la nostra formazione che si sviluppava per una maturità autonoma e non per vissuti dipendenti ed imitativi. “Antico è il luogo mentale e il groviglio di stati d’animo dove si sono rifugiate le cose, si sono nascoste le immagini, si sono annidate le esperienze divenute storie nostre e d’altri… […]”.

(Duccio Demetrio, Allantica – Una maniera di esistere, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2021)

E ciò che maggiormente mi mancano sono però le atmosfere, i luoghi che si frequentavano per socializzare, incontrarsi, sentirsi parte di un contesto socio-culturale indispensabile non solo per la propria crescita e la frequentazione di tradizionali valori, esperienze e comportamenti rassicuranti e vivificanti, ma per le certezze che quel mondo era ancora in grado di offrire, insieme al furore di diventare adulti altrettanto responsabili nella continuità della propria famiglia d’origine e delle proprie ambizioni, competizioni, scelte del futuro, per raggiungere lo status desiderato o consigliato.  La Società svolgeva un ruolo orientativo, di stimolazione, di ricchezza di esperienze (vedi servizio militare obbligatorio) e di processi emulativi (vedi la scuola selettiva, competitiva, formativa).

Oggi che abbiamo la fortuna di vedere i risultati del ribaltamento tra il vecchio ed il nuovo, non possiamo che rattristarci e rimpiangere ciò che abbiamo definito nozionistico, imitativo, censorio, limitativo della libera espressione personale e delle libere scelte di costume e di comportamenti.

Siamo più vicini alla cultura tribale che non a quella del progresso sociale e civile. Rompere ogni schema del mondo antico e del vivere all’antica non ha significato liberarsi di incrostazioni ed ipocrisie tiranniche del passato, ha significato illudersi di essere migliori, più veggenti, più liberi di denudare la propria personalità senza poi ricoprirla di valori in piena dignità e valorizzazione per le nuove sfide sociali, culturali e politiche. Le giovani generazioni vivono in piena emarginazione ed abbandoni, sono deprivati di ogni necessaria conquista per fronteggiare le problematiche complesse e complicate del vivere quotidiano e di inserimento nel mondo produttivo e professionale.

Il “moderno” ci ha prepotentemente gettati fuori da quei contesti familiari, amicali, di aggregazione sociale e culturali che caratterizzavano il vivere all’antica. Si viveva il privato, il domestico, il calore degli affetti e dell’amicizia, si gioiva timorosi delle prime esperienze amorose e ci si esaltava nell’ascoltare un Maestro di letteratura italiana in una affollata conferenza non solo di studenti oppure il desiderio di vivere le emozioni di palco o la “rossa” platea del teatro Comunale di Bologna, come se fosse il nostro primo ballo per entrare nel mondo dei “grandi”. Troppe sarebbero le cose che ancora vorrei dire, ma mi piace chiudere queste opportune considerazioni e dolci evocazioni pensando al piacere del conversare in famiglia mentre si diffondeva, con leggerezza pianistica, le note festose e distensive dell’intramontabile brano musicale Petit – Montagnard.

 

                                          Franchino Falsetti

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