Inviti ad abbandonare il pensiero unico
Sono considerazioni come fossero Cattivi Pensieri per chiedersi altro: siamo tutti colpevoli ?
Pubblicato il 07/01/2023
I vizi immorali degli italiani
La vita nel mondo occidentale è costantemente dominata dalla distrazione, dal pensare altro, dal considerare ogni atto operativo o di relazione come un transfert permanente. Non siamo di fronte a cambiamenti di cultura che possano, come ci ricorda Leopardi nelle sue Operette morali, suggerire scelte di costumi diversi e quindi sostanziali trasformazioni. Provo a fare alcune considerazioni.
La parola morale (mos – moris “costume”) secondo il dizionario Treccani, relativo ai costumi, cioè vivere pratico, in quanto comporta una scelta consapevole e azioni ugualmente possibili.
Da Plutarco a Seneca a Leopardi, per citare pensatori che maggiormente si sono occupati di questo tema, con sapienza e volontà pedagogica. Il costume di un popolo non corrisponde alla cultura di un popolo, bensì ad un insieme di regole che correggono i comportamenti sociali, nel rispetto della libertà e responsabilità reciproche. Noi italiani ci lamentiamo che paesi di altre culture ci caratterizzino con gli stereotipi del “mandolino, spaghetti e mafia “. Noi non siamo di meno verso questi paesi europei (pensiamo ai giornali umoristici dell’Ottocento, della Prima e Seconda guerra mondiale verso i nostri nemici e verso una evidente decadenza del modello borghese di un vecchio capitalismo). Ma anche oggi riserviamo ai francesi, tedeschi ed inglesi, in massima parte, le nostre denigrazioni (sempre sull’onda del transfert politico).
Ciò che invece gli italiani non rinunciano è la formazione e la morale per imitazione: ciò che fanno gli altri va bene anche per noi.
La cattiva educazione diventa così il modello morale da imitare. Lo stile di vivere è trasgredire, fare senza pensare, usare le cose degli altri come se fossero in costante demolizione, leggere i divieti come se non esistessero, ci si muove per danneggiare ma non per esprimere la propria maturità civile e culturale. L’educazione civica non deve solo illustrare la Costituzione italiana, ma deve illustrare (con vignette, come era in uso nel dopoguerra circa il non toccare oggetti esplosivi) che dal vicino di casa, a come prendere un mezzo pubblico, a come parcheggiare la propria automobile, a come camminare per strada (rispettando il proprio “senso di marcia”, senza muoversi a branco o peggio ancora a gregge), all’uso corretto dei cassonetti dei rifiuti, al rispetto delle tolleranze acustiche, al rispetto degli orari notturni, del diritto al riposo, della tranquillità, del vivere civile, consapevole della libertà dell’altro, evitando di rendere le nostre giornate cronaca di guerriglia interna, di agitazioni, di atti contro la natura e la sacra morale individuale.
Se questo fosse il nostro programma sicuramente potremo sentirci italiani, nella tradizione di Monsignor Della Casa, ma noi preferiamo la cultura terzomondista, dell’accoglienza dove prevale l’assimilazione non l’acculturazione, le morali esterofili che nascono dal disadattamento, dalle persecuzioni, dalla violenza legalizzata, dal razzismo. È inutile parlare ogni giorno (politicamente) di femminicidio. Bisogna parlare della violenza che si è radicata nella nostra cultura e combatterla con ogni mezzo. Questa pericolosa convivenza produce solo mortificazione ed emarginazione. La carta d’identità non è più sufficiente per dimostrare di essere italiani. Di appartenere ad un popolo di ricca tradizione valoriale.
Il dialogo, il rispetto, la comprensione, la solidarietà, l’amicizia, l’ascolto, sono diventati slogan per i bollettini parrocchiali.
Bisogna parlare di Società educante: la scuola deve ritornare ad essere la culla della nostra morale, della nostra etica, degli insegnamenti per conquistare la coscienza civica del rispetto e della convivialità, superando ogni egoismo individualista ed arroganze liberticide, prevaricanti e tollerate.
“Parlando sommariamente e senza dissimulazione, ma chiaramente, la morale propriamente è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora, né chi sa fino a quando, e non se ne vede il modo; i costumi possono in qualche guisa mantenersi, e sola la civiltà può farlo ed essere instrumento a questo effetto, quando ella sia in un alto grado”. (Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, 1824).
Franchino Falsetti