Miry in Poetry, dedicata a “Attraverso il tempo”
Cristina Sferra nelle note di lettura di Miriam Bruni
Pubblicato il 27/12/2021
“Attraverso il tempo” di Cristina Sferra
Nota di Lettura di Miriam Bruni
Scritte tra il 2017 e il 2020, queste liriche dedicate “alle anime che restano a proteggere” stupiscono in un certo senso per il loro gradiente di amarezza e strappano al lettore sensibile un abbraccio di empatico affetto per chi le ha composte, partorendole, per usare una metafora cara all’autrice. Cristina Sferra è come in riva al mare, ne guarda la risacca, ne ascolta il lamento, e setaccia la sabbia con le dita.
Setaccio tra le dita
la sabbia del mio tempo.
Monili preziosi trovo
e pezzi di nessun valore.
(p.19)
Il “tempo” è dunque quello della sua vita trascorsa, di cui farà bottino per trarne la sua storia. Il tempo è come un luogo, lo sappiamo, un luogo perduto dove gemono piano i ricordi e i palpiti di sospiri incompiuti. (p.24) È così per tutti, e difatti la prefazione ci aveva avvertito che l’indagine sottostante questo libro era su questioni personali di portata però universale. Considerazioni su ciò che siamo stati, su ciò che abbiamo attraversato, su ciò che abbiamo perduto. L’io narrante è indolenzito e gravido di parole che dicano ciò che si è andato smarrendo, allontanando, opacizzando. Ora c’è quello che i titoli scelti fanno chiaramente presagire: ricordi, tristezze, nostalgie. Ma non solo, ovviamente!
L’idea di sapersi ancora nella lotta dell’esistenza e al contempo provati dalle battaglie già sostenute è bene espressa dall’immagine autobiografica dell’erba battuta, ma viva, cui vorrei accostare un altro termine importante di questa raccolta, costitutivo direi: il termine “inquietudine”, quello stato di disagio che si vorrebbe esiliare da sé e che invece ci sferza inclemente.
Come muto oggetto
allo stipite assorto mi appoggio.
Seguo la fuga delle fughe
per non seguire l’inquietudine
che mi soffia addosso.
Immobile sto per distrarre
l’ostinato disagio che spinge.
Che non entri sotto la pelle.
(p.9)
Credo poi che il “confine” di cui la Sferra parla nelle prime pagine sia il confine del corpo, una sorta di coperta sotto cui si cela l’essenza della persona, il suo invisibile sentire.
Oltre il confine brulla
è la steppa del sentire
e battuta dal vento.
Dei troppi anni vissuti.
Dei troppi luoghi trascorsi.
Dei troppi niente perduti.
Dell’indicibile solitudine.
(p.7)
Una coperta (vedi sotto) che ci spinge molto oltre: non si tratta infatti solo di un invito a considerare quanta sofferenza si possa nascondere spesso dietro un volto. Qui l’autrice affronta con coraggio un feroce gioco linguistico che assimila “assenza” ad “essenza”, parlando di sé col termine di trasparenza. Ma attenti: così come la coperta è solitamente atta a risvegliare significati positivi di calore e protezione, e la trasparenza significati di purezza, qui sono altre le accensioni di significato richiesteci. Ascoltiamo:
Mi vedi? Mi vedi?
Sono la mia trasparenza
che bacia i tuoi occhi aperti
ciechi di sentimento.
Non mi amo se non mi trovo
riflessa nel tuo sguardo.
Sono la mia assenza
sepolta sotto la carne,
coperta sempre più greve
per la mia profonda essenza.
(p.41)
Ecco quindi che alle successive letture i testi di un autore lasciano emergere, come per distillazione, gli echi del sentire di altri scrittori, di altri poeti. Io ci ho udito Antonia Pozzi, (ricordate l’ “esile scia bianca”….?) in particolare nella poesia di pagina 29 dove la voce narrante si descrive in termini di: Piccola donna bianca,/bambina di porcellana,/sottile, flebile anima.
Un’anima sottile, delicata, sì, che cerca spiragli di silenzio dove/al corpo e alla mente trovare rifugio. (p.14). Ed è la poesia quel rifugio, quel silenzio, quel riparo, credo, è lei che ci mette sottocoperta rispetto al vento delle intemperie, del frastuono del mondo, del terrore per la vacuità…
E termino soffermandomi su di un ultimo testo che rivela le profonde affinità tra Filosofia e Poesia, come ha splendidamente delineato nel suo saggio omonimo la grande Marìa Zambrano: il loro simile interrogare la realtà e cercare il vero, pur riconoscendo la propria piccolezza e inadeguatezza a identificarlo senza esitazioni, spesso arrivando quindi al celebre motto “So di non sapere”.
Se prima era l’ombra,
è questa la luce?
Non mi riconosco.
O l’ombra è dove ora mi trovo,
e la luce è rimasta laggiù?
Non so dire il vero.
Se prima era la vita,
è questa la morte?
Non mi riconosco.
O la vita è dove ora mi trovo,
e la morte è rimasta laggiù?
Non so dire il vero.
(p.26)
A conti fatti comunque la Sferra una cosa la sa. Di appartenere alle colline. Perché è lì che il tempo scompare, e tutto ritorna vivo, proprio come una promessa ancora da verificare. (p.36)
Bologna, 27/12/2021 – Miriam Bruni