Editoriale Millecolline. Vorrei essere premiato anch’io

Vorrei essere premiato anch’io

Ci si vuole tutti uguali, anche nei premi e nei riconoscimenti.

Mancando le tradizionali distinzioni di merito e di ingegnosità, tutti possono aspirare ad una patacca o ad una pergamena riciclata, purché abbia la firma del “timoniere” di turno.

La mia potrebbe apparire come una delle scadenti provocazioni, ma non troppo. Tutti non vogliono sacrificarsi, ma voglio rendersi visibili, a qualunque costo, compreso essere fotografati con l’Assessore di turno per gli ameni appuntamenti, stereotipati, riservati alle nozze d’oro, e di diamante.

Sembra che si sia conquistato un traguardo per la propria pubblicità, quella che serve per avere, oggi, un ruolo di riguardo o sentirsi gratificato anche da qualche complimento dai soliti detrattori condominiali.

C’era un vecchio ritornello che diceva “ci vuole un fisico bestiale”. Oggi anche questo non basta più. Ci vuole la predisposizione, come diceva Leopardi; “a riempire il vuoto cagionato dalla mancanza de’ bisogni primi” (Giacomo Leopardi, i vizi degli italiani,1824). Dopo due secoli non siamo cambiati, anche se sono avvenuti molti eventi tragici e di diffuso benessere.

Ciò non toglie che l’Italia goda del triste primato di essere il Paese che investa, per eccesso di protagonismo e di gratuite velleità e vacuità il maggior numero di Convegni,

Congressi, Seminari, Forum, Premi letterari, artistici, musicali, cinematografici e teatrali. Senza contare tutti i Festival dei filosofi e dei pensatori del giorno dopo, compresi i riconoscimenti giornalistici aperti a chiunque sappia tenere in mano un tablet o un computer.

La penna è un oggetto obsoleto che ritorna solo per omaggiare i partecipanti bocciati in calligrafia alle scuole regie elementari (poi divenute repubblicane).

I tradizionali premi letterari come: Campiello, Strega, vivono il mondo dell’Editoria e, al di là del buonismo imposto dalla tradizione delle iniziative, il riconoscimento (che vive di qualità riflessa) non corrispondente, molto spesso, né alla personalità del vincitore, né alle tematiche affrontate. Gli scrittori/trice, oggi, non sanno scrivere: non hanno alcuna preparazione e nessuna predisposizione. Siamo sinceri: oggi la scrittura pubblica è uguale a pubblico impiego.

Gli antichi scrivani, che stavano dietro a banconi rosicchiati e sporchi, rimanevano, al freddo intenso, per ore, in attesa che qualche analfabeta si facesse scrivere una lettera.

Quelli che animavano i romanzi d’appendice dell’Ottocento, ha smesso i panni di miserabili e si sono vestiti da Prada o da Armani o da qualche altro straccivendolo con le “griffe” contraffatte, e si sono seduti in case comode con il computer che copia ed incolla e taglia e cuci  qualche banalità di cronaca e dell’attualità.

E voilà il libro è fatto.

Leggerlo non è un piacere, a volte si prova un vero disgusto, poiché si scrive come un “copista”, ma nel frattempo, abbiamo disimparato a leggere ( non come quella ennesima pubblicità pseudo-culturale del quotidiano la Repubblica che non si sa a chi si rivolge, ma come scrive l’insuperabile Marcel Proust: “La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori”).

Conversare con i vivi, con i contemporanei ci vuole il vecchio scafandro, poiché facili sono le profondità melmose che si possano toccare dopo le prime parole dell’incipit. I contenuti sono tutti mass mediologici: tutti provenienti da novel, telenovelas, grande fratello, format social, di cui bisognerebbe vergognarsi, perché anche la cronaca rosa non fa più sognare.

Le donne non sono quelle che vengono descritte, sono quelle che camminano affianco a noi. Sono esseri disperate, incapaci di affrontare la realtà e soggette solo a subire violenze ed emarginazioni.

Il cerchio non è più magico, né virtuoso, ma solo un invisibile recinto in cui si annidano il Male, la disperazione, lo smarrimento, il disordine, il mondo alla rovescia., la cancellazione di ogni ereditata e conquistata identità.

Ecco perché vorrei anch’io un premio, perché ho sempre cercato e cerco di insegnare quello che scriveva Italo Calvino: “Quello cui io tengo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo”.

Una frase che mi colpì e che io possedevo da tempo. Era la mia sintesi filosofica per far fronte ad ogni combattimento culturale ed ideologico.

Questo premio mi ricompenserebbe del mio incessante impegno produttivo e pubblico iniziato all’età di 13 anni e tuttora continua…

                                                                    Franchino Falsetti

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