Editoriale
L’Editoriale Millecolline
Pubblicato il 30/07/2023
La città multietnica ci rende inospitali
Siamo sempre più convinti e forse rassegnati nell’essere testimoni di radicali trasformazioni epocali e di declino non solo di un mondo di ieri ma anche di un mondo di oggi.
La voglia di vivere si è sostituita alla “paura” di vivere e di conseguenza il mondo attuale colpito da varie calamità naturali e continue aggressioni e distruzioni (i popoli stanno perdendo le loro libertà) frutto di visioni difensive e di paura dell’avvenire che non c’è. Le euforie della fine della terza guerra mondiale si sono stemperate nel tempo con l’omologazione educo-formativa prodotta dall’industrializzazione, dalla tecnologia e dal consumismo.
In un attimo ci siamo ritrovati alla fine del secolo scorso dove i valori e gli ideali erano altri e l’emozione del vivere prese il posto alle meditate domande sul significato di Essere e di Tempo.
Ma senza dover scomodare il grande filosofo tedesco Heidegger, la filosofia del presente divenne il leit motiv del posto moderno, del cosiddetto pensiero debole che in seguito creerà movimenti come il destrutturalismo che sembrò demolire la piramide della rivoluzione francese.
In questi giorni è morto il filosofo francese Augé, l’inventore dei “non luoghi”, quelli in cui nascondersi dove non succede nulla, perché deprivati, anonimi, insignificanti.
L’Italia, paese, invece, dei luoghi, delle identità, della memoria, dell’archeologia della conoscenza e dei saperi, dei musei e pinacoteche, dei giacimenti culturali più vasti e più ricchi del mondo, ha cercato di resistere all’onda anomala e devastante della globalizzazione e del rendere un parco di divertimenti l’invenzione più straordinaria come quella della città.
L’agorà greca, il foro latino, il luogo delle contrade, degli incontri dei cittadini (ricchi e poveri), l’anfiteatro dei sentimenti, degli ardori, delle battaglie civili, religiose e militari.
La città non solo luogo per eccellenza, ma grande scenario per la comunicazione e le pubbliche relazioni. Un segno indelebile della Civiltà. Abbiamo resistito alle seduzioni d’oltre oceano come il trasformare le città in alienanti spersonalizzanti Disneyland come è avvenuto in America.
La città, espressione dell’Età dei Comuni, ha cercato di essere presente nel nostro immaginario collettivo, in particolare, in città come Bologna, dove convivono le testimonianze del passato con le presenze futuriste delle icone contemporanee.
“Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante”, scriveva Sant’Elia teorico dell’architettura futurista, “agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca. La casa di cemento di vetro, di ferro, senza pittura e senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi, straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità. […]”.
Ma, al di là dei sogni avveniristici, la città, di fatto, è cambiata. E continuiamo a chiamarla città. Non è ciò che noi della generazione del passato prossimo ricordiamo ed abbiamo avuto il piacere, come per l’esperienza del cortile, di considerarla come Calvino, descrivendo Parigi: un’enciclopedia vivente.
Il nostro libro senza uguali, senza riduzioni o pagine strappate. Aggiungo io pensando a Bologna che al riparo dei suoi superbi portici si ascoltano i mondi che ci hanno preceduti.
Tutto a Bologna ci parla del passato e dei suoi primati ed insegnamenti. Questa continuità ideale e culturale con il presente non si esprime più.
Bologna non è più un’enciclopedia, i giornalieri stimoli fatti di mille curiosità, di contatti, di smaglianti vetrine che erano non solo una seduzione effimera ma un invito costante al dialogo con le cose da desiderare e che, comunque, erano parte del nostro vivere, del nostro modo di dialogare e del relazionarci con gli altri non solo per “comprare”, ma per esprimere compiacenze, ammirazioni e sentire quella segreta carezza delle cose belle.
“A Parigi ci sono negozi, scrive Calvino, di formaggi dove vengono esposti centinaia di formaggi tutti diversi, ognuno etichettato col suo nome […]”.
Anche a Bologna in via Oberdan o sotto la Torre Alberici in piazza della Mercanzia, esistevano negozi specializzati in queste particolari produzioni. Erano proprio delle enciclopedie.
Oggi la città sia chiama metropolitana, vive di relazioni commerciali e di mille presenze incomunicabili ma a contatto per trovare solidarietà, accoglienza e distribuzione di assistenza.
La città contemporanea, non solo Bologna, non vive più di impressioni, di antiche tradizioni, di familiarità, nel nostro caso di bolognesità, vive di necessità primarie, di visibilità per i turisti: si è a tavola dalla mattina alla sera nella superficialità dell’incontro, nella povertà di linguaggio, di espressione e di comunicazione.
La città non è inospitale solo per la multiculturalità (che è una sommatoria di culture) ma per la disgregazione degli usi e costumi autoctoni che avevano caratterizzato la storia dei nostri modus vivendi e che ci aiutavano a crescere e sentirsi corpo integrante della Comunità.
La Città era Educante e questo valore inestimabile, dissolto dal potere della burocrazia del garantismo sociale (diritto di cittadinanza) e del permissivismo tollerante, è stato sostituito dalla cultura dei non valori, dalle nuove forme di emarginazione e dalla cancellazione.
“Lo stimolo superficiale, l’esotico, il pittoresco agisce soltanto sul forestiero. Perché un nativo giunga a rappresentare l’immagine di una città occorrono motivi diversi e più profondi. Motivi che inducono a viaggiare nel passato anziché in luoghi lontani”.
(Postfazione di Peter Szondi, in Benjamin , Immagini di città, Nuova Edizione, Torino, Einaudi,2007).
Franchino Falsetti