Giorni alle Ariette. “Un giorno”.

Esistono ancora incontri fra uomini, vita e ricordi

Un incontro o un ricordo è questo raccontato dai ragazzi delle Ariette

Pubblicato 13/01/2021

 

UN GIORNO

In questo periodo dell’anno le giornate si sono allungate. Usciamo di casa per dare da mangiare agli animali attorno alle cinque di pomeriggio. Da alcuni giorni ci capita di vedere a quell’ora una persona che passa davanti alle Ariette, una donna forse, ma è talmente coperta con sciarpa, berretto e guanti che potremmo anche sbagliarci.
L’abbiamo notata perché passa e si ferma a guardare gli animali, soprattutto il pollaio e le pony che arrivano dal pascolo. Noi la vediamo a pezzi attraverso la siepe e forse lei pensa di non essere vista.
Poi arriva la Tea che abbaia, lei parte in direzione Acqua Salata e scompare. Chi sarà? Forse solo una podista diligente che ogni giorno a una certa ora fa la sua camminata. Non so perché continuiamo a pensarci e a parlarne.
Ci sembra che voglia dirci qualcosa e poi invece parte e se ne va. E il giorno dopo torna.

Quasi sera. Inverno 2020. ( ph. R. Cerè)

Potrebbe essere una “barbona”, ma solo per come è vestita, infagottata in un largo giaccone, una grossa sciarpa che copre il volto, guanti e berretto di lana. Il suo passo è spedito e svelto, quasi giovane.
Il giorno dell’Epifania facciamo una lunga camminata. Vogliamo arrivare a Campocorno, un piccolo monte che vediamo dalle Ariette e che sovrasta i calanchi dove nella primavera scorsa, in pieno lockdown, abbiamo sentito ululare un branco di lupi per dieci minuti.
Arriviamo a Campocorno e da lì, aggirando una recinzione che impedisce il passaggio, percorriamo il crinale sui calanchi. È un sentiero nuovo per noi, ci sentiamo pionieri, pronti ad accogliere qualsiasi novità, qualunque incontro.
Attorno a noi è tutto talmente bello, talmente grande, talmente incontaminato da riempirci il cuore, da far scomparire per un attimo tutte le paure.

Salita al Gabbiotto. Inverno 2020. ( ph. R. Cerè)

Cosa mai può succedere in un posto così?
I calanchi sotto di noi sono maestosi, di un grigio potente con delle venature verdi e rossastre, e apparentemente inerti. Non c’è traccia di vita ai nostri occhi.
Improvvisamente a metà del calanco, proprio sotto di noi, vediamo una punta di blu.
Forse un animale, un uccello, una ghiandaia. No, si muove in un modo strano. Quel punto blu è un berretto e copre un volto, un volto umano. Il corpo non si distingue bene, è una massa unica, è infagottato. Improvvisamente ricolleghiamo quella forma con la persona che vediamo da un po’ di tempo alle cinque di pomeriggio. Ci prendiamo per mano e ci sorridiamo.
Non è possibile, non può essere lei, cosa starebbe a fare qui in mezzo?
Non vogliamo disturbare, ma nello stesso tempo avremmo voglia di parlarle. Però capiamo che lei ha notato la nostra presenza, ma probabilmente non vuole essere disturbata.

Sotto al Paraviere. Inverno 2020. ( ph. R. Cerè)

Così l’unica cosa che ci viene da fare è dire “Buongiorno” e ripartire.
Continuiamo il nostro cammino, cercando con la coda dell’occhio di spiare la situazione, ma dopo pochi passi la perdiamo di vista.
Torniamo a casa, incuriositi. Ci diciamo che il giorno dopo dobbiamo assolutamente cercare di attaccare discorso con lei. E così succede.
Alle cinque di pomeriggio, la persona infagottata si ripresenta al di là della siepe e questa volta ci buttiamo. C’è un precedente e così ci rivolgiamo a lei: “Buongiorno” e lei risponde: “Buongiorno Ariette”. È una voce femminile, dolce e calda.
Ci parliamo a lungo, quasi senza vederci, noi di qua, lei di là dalla siepe.
Era venuta alle Ariette tanti anni prima, 25 forse, come cliente, quando con l’agriturismo facevamo anche l’ospitalità, in una sola camera della casa, quella al piano più alto, la più bella camera delle Ariette.

Piccolo crinale, 2017. (ph. R. Cerè)

Era venuta con la sua compagna, il grande amore della sua vita, ed era rimasta da noi qualche giorno. Era primavera, avevano camminato tanto, ma erano anche state tanto in quella camera così bella che lei diceva di ricordare ancora perfettamente.
Adesso la sua compagna non c’è più e lei sta ripercorrendo questi luoghi per ritrovare le tracce di quei giorni, di quel pezzo di vita.
La sua voce è talmente tenera ed emozionata che ci commuoviamo anche noi e non sappiamo più cosa fare. Ci guardiamo e senza parlare ci intendiamo. Forse l’unica cosa che ancora le manca è la nostra casa, quella stanza d’amore.
La invitiamo e lei accetta con gioia.
Arriva davanti alla porta di ingresso e si ferma. Noi apriamo la porta, lei entra e a quel punto capiamo che riconosce tutto. La casa non è cambiata, quelle scale le sono familiari. Sale le scale, lentamente, arriva fino all’ultima stanza, al secondo piano. Entra. Per pudore la seguiamo fino al pianerottolo e poi torniamo indietro.

Calanchi alla Dogana Vecchia, 2017. (ph. R. Cerè)

Per tre ore non sentiamo nulla. Saliamo, la porta è socchiusa. Lei è accovacciata sul divano ancora completamente infagottata. Dorme. Il suo volto è disteso.
Non possiamo svegliarla, finalmente il suo peregrinare ha trovato un punto d’arrivo.
Continua a dormire. A mezzanotte torniamo a vederla. Ha cambiato posizione e continua a dormire. Oramai dobbiamo fidarci, non abbiamo altra possibilità. Andiamo a dormire con un pizzico di inquietudine, ma anche pieni di gioia.
La mattina dopo la troviamo ancora in camera, seduta, ancora infagottata.
Quando ci vede dice: “Buongiorno”, si scusa e ci ringrazia.
Poi scende le scale, apre la porta di ingresso, si volta e con un sorriso dice: “A presto”.

Vicino a Tiola, 2017. (ph. R. Cerè)

Racconto scritto da Paola e Stefano, Teatro delle Ariette. Troppo bello per non essere pubblicato.

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