Pensatevi Liberi, una frase che ancora fa paura

Il titolo è una meraviglia di intuizione 

Pensatevi Liberi, in Italia non c’è gusto ad essere intelligenti

 

Pubblicato il 15/08/2019

 

In una stanza bianca, quattro pareti lisce e una striscia variegata con fotografie, articoli di giornale, locandine tracciate a mano, fotografie in bianconero che la percorre in un inseguimento che si posiziona in un ricordo leggermente superiore alle mostre delle scuole medie della mia provincia. La musica degli Skiantos che ti accompagna alla mostra, con vecchie registrazioni dal vivo, mi fanno sorridere mentre cerco di riattaccare il PVC col testo descrittivo che si è staccato dai suoi quadrotti di biadesivo.

 

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Sono invece al MamBo, nello spazio che è stato dedicato alla mostra Pensatevi Liberi visitabile furtivamente fino al 29 settembre.

In questa mostra le memorie accatastate e allineate, come appena estratte dal baule infilato e dimenticato in fondo alla cantina di casa, sono sbucate con immagini, brandelli di articoli, visi e gesti fotografati che raccontano la bellezza dell’Utopia ti fa pensare che, forse, per questo motivo furono inviati gli M113 in via Zamboni. Il pericolo era che la grande varietà di pensiero/i che si stavano formando: musica, arte, grafica, nuove sale di incisione, teatro,  poesia, radio libere, incontri, suoni, rumori, confronti, (tutto ad alta voce) potesse concretizzarsi al termine di questo avvio rumoroso e scoppiettante. Non si poteva.

 

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Uno dei commenti che sento spesso fra chi ha trascorso quei giorni in quelle vie di Bologna è: – “Si è attraversato un momento senza rendersi di quanto stavamo facendo; di quanto grande fosse quello zibaldone colorato e rumoroso”.

Mi piace pensare che, una volta aperto quell’ipotetico baule, il suo proprietario si sia reso conto che quello che aveva fra le mani era la sua vita: la vita di quei suoi anni; non certo quella di parenti rarefatti dalla lontananza. Nessun alibi; quello era lui. Forse anche i volti di ragazzi e ragazze con cui aveva condiviso quell’allegria hanno perso i nomi e soprannomi; molto si è confuso anche dalle scelte intraprese a seguito. Quanti di loro hanno fatto contesa nel rinnegare quei pensieri e gesti per meglio adeguarsi alla conformità che li ha vinti (?). Altro che utopia.

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Quella specie di mestizia doverosa che pervade la mostra non riesce però a trattenere la quantità di vita che tracimava in quei tempi troppo giudicati e rinnegati: tanta è la sorpresa nello scoprire quanta differenza fra i giorni raccontati su quei 4 muri e la contemporanea mestizia avuta in cambio di questi giorni contemporanei. Accontentarsi del poco concesso oggi e gioirne pure: bella grazia che possiamo ancora essere ribelli dimostrandolo attraverso la voce alta che ci permette il secondo boccale di birra consumata in quel gazebo sotto questi vecchi portici.

 

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E’ vero, quelli che hanno trascorso quei giorni troncati non si sono resi conto subito del fatto che tutto ciò che si sogna è un volo che può essere abbattuto. Si immaginava solo che tutto quel fermento, nel tempo, avrebbe portato ad essere più sereni (felici?) una volta scrollati di dosso gli eccessi. C’è chi ha permesso che non fosse così e che tante cose sognate non accadessero; che volto avrà (?), si potrà riconoscere, oggi, nei visi senza rughe di quelle fotografie in Bianco/nero?

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Pensatevi Liberi

Testo e fotografie di Roberto Cerè per la rivista WEB Millecolline.

Tutti i Diritti Riservati.

 

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