Bianciardi a sessant’anni dal “lavoro culturale”
Luciano Bianciardi
Pubblicato il 18/05/17
E’ un compleanno, non un anniversario. Vorrei ricordare questo pamphlet non come un reperto archeologico del sapere, della cultura italiana degli anni cinquanta e del boom economico, segnati dall’impegno italiano di Elio Vittorini (iniziate sulle ricche pagine del suo “Politecnico”) e da quello francese di Paul Sartre ( su “Les Temps Modernes”). L’epoca della “rinascita” in cui si animavano i cineforum, i dibattiti, le conferenze, gli incontri di una certa “intellettualità” italiana, di sinistra un po’ snob alla ricerca di una paternità ideologica.
Sta per scoppiare il “boom” economico e si cerca di aggredire con ogni artificio, anche “caricaturale”, i modelli imposti da una nascente industria culturale. Nasce il “politico” di professione, il nuovo “tribuno” qualificato nelle sezioni di partito. Nasce l’insuperabile “Il lavoro culturale” di Luciano Bianciardi, nell’ottobre del 1957. Un racconto di provincia, dopo i successi dell’Integrazione e della Vita agra, che fece molto discutere in certi “riservati” ambienti della cultura e della politica e che per molti anni fu un libretto da non parlarne solo come una “novità” editoriale.
Bianciardi, con acuta intelligenza, seppe mettere a nudo la semplicità di un linguaggio, quello politico, che si avvaleva di parole astratte, metaforiche e prive di ogni reale consistenza. Parole vuote che vennero, facilmente, memorizzate, insieme alla mimica e la gestualità sottolineate dal nuovo operatore culturale. “Il problema si pone, o si solleva”. “Il problema è sempre nuovo”. “Sul problema si apre un dibattito”. Bianciardi presentava gli intellettuali come: illuminati, democratici, avanzati, molto vicini a noi, al servizio della classe operaia. Gli pseudo-intellettuali sono invece gli altri, quelli che si sono posti al servizio del padronato, della reazione, del grande capitale, dell’imperialismo. Ma all’attenzione del “format” linguistico, Bianciardi ci descrive un vero prontuario della gesticolazione: il pensiero, la parola venivano visualizzate e sottolineate con un preciso “alfabeto gestuale”.
Mi sembra opportuno far parlare Bianciardi:
“Ampio: si accompagna con un gesto circolare delle due mani, palme rivolte in alto. Concreto: si strofinano i due pollici contro le altre dita. Prospettive ( e anche indicazioni ): la mano sinistra si sposta in avanti, verticale; le dita debbono essere unite. Nella misura in cui: la mano – sempre sinistra – piegata a spatola, scava in un mucchietto di sabbia immaginaria posta di fronte a chi parla. Sul terreno del : col dorso della mano si sfiora il tavolo, con un gesto orizzontale”.
Un piccolo capolavoro dove Bianciardi, con la sua sottile ironia, metteva a nudo le manie, le velleità, il non percettibile dei suoi protagonisti che parlavano di istanze senza saperne il significato.
Un’Italia dove un certo moralismo di maniera era ancora diffuso mentre si progettavano i nuovi sogni degli italiani, fatti di televisori, frigoriferi ed utilitarie. La nuova famiglia, un sorriso di speranze, una nuova fede: i beni di consumo. A distanza di sessant’anni il consumismo non è più un “sogno” per sentirci più liberi e più ottimisti, ma una vera scelta obbligata, dove ci sentiamo meno liberi, più diseguali e più disperati.
Questo illuminante pamphlet di Bianciardi, dovrebbe essere regalato ai nostri parlamentari e reso obbligatorio come libro di testo nelle nostre scuole.
Ma chi potrà commentarlo senza saperlo illustrare non solo in senso storico, ma in senso culturale, di come si forma una mentalità, di come si era e di come siamo diventati. Forse si rischia di scoprire che non siamo più capaci di commentare i libri perché oggi non li sappiamo più leggere, li compriamo per regalarli, o per sostenere gli scrittori, inventati e prodotti dal mercato dell’Editoria.
Franchino Falsetti
Produzioni Millecolline
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