Editoriale
L’Editoriale Millecolline
Pubblicato il 28/08/2022
Il card. Zuppi gioca a fare l’influencer su Vanity Fair
Non so se sia l’estate, il tempo dei colpi di calore, ma certo che dalla crisi di governo (mai accaduta in tempo balneare), alle varie amenità culturali, alle scoperte archeologiche di grande rilevanza storica, all’invasione (inattesa) di un nuovo ritorno al motore Turismo, vera risorsa economica del nostro Paese, al diffondersi di nuovi contagi, al vivere come se fosse l’ultimo giorno, non poteva mancare l’ultima stravaganza degli esponenti eminenti della Chiesa di Roma. Sul numero del 17 agosto del settimanale Vanity Fair, ben quattro pagine, con foto da vecchi rotocalchi, sono dedicate al card. Zuppi in una lunga intervista, curata da Silvia Bombino. In altre occasioni ho timidamente proposto queste nuove invasioni di batteri che nascono dai media vaticani: dal papa con il microfono sempre pronto per sentirsi come un ospitato televisivo, dimenticandosi di essere il Vicario di Cristo e preferendo i panni del libero cantastorie, anzi di prete di strada, la sua vera origine, in cerca di notorietà, di visibilità, di tentazioni del sulfureo mondo attuale a cui non dispiace sottrarsi neppure ai vari esponenti della Chiesa distribuiti in tutto il mondo.
Ma in Italia abbiamo il clero più agitato, insofferente (dalle censure ai canti e riti natalizi fino ad officiare matrimoni gay, alla cancellazione della messa in latino e la sensuale messa col parroco e fedeli in costume da bagno immersi nell’acqua in riva al mare, fino ad ammiccare ai nuovi “diritti” transgender, ius scholae, immigrazioni, conflitti bellici (quelli di attualità) segni di stucchevole complicità di un evidente degrado della nostra Civiltà. Inoltre si sono trasformati in biforcuti predicatori sui temi socio-politici come: la pandemia, la crisi dell’energia, la siccità, la morte assistita, gli indigeni dell’Amazzonia e le relazioni diplomatiche. Uno vero zibaldone, dove non appaiono più i lessici, i discorsi devozionali, i temi del destino dell’uomo, la perdita, ormai disperata della Fede, dei valori della Charitas (con l’”H”) e della Provvidenza, la scomparsa del senso del “Sacro” che ha concorso allo svuotamento delle Chiese, alle sue “svendite” per usi umanitari, all’inesistenza delle vocazioni, parola desueta, non più in uso, completamente sconosciuta.
L’intervista a cui ho fatto e faccio riferimento al card. Zuppi avrebbe dovuto essere stata commentata dal geniale Umberto Eco, in senso semiologico, secondo la scuola del filosofo, matematico, semiologo, scienziato Charles Sanders Peirce e dei suoi ineccepibili strumenti di decodificazione e di interpretazione per evidenziare, in modo caustico, le incongruenze e l’ostentazione sottile delle sue affermazioni come se fosse un amministratore comunale, cioè pubblico.
Buona parte dell’intervista ricalca la moda corrente: presentarsi come uomo, le sue origini, la sua famiglia fino alla entrata in Seminario ed il ricordo della sua prima messa ai 26 anni a cui “parteciparono tutti i suoi parenti”. E poi seguono domande relative ai temi oggetto dei dibattiti parlamentari. La questione dell’immigrazione è risolta con le solite parole già espresse da papa Francesco. Sembra che la solidarietà possa risolvere questo complicato, enorme problema umanitario: “La solidarietà è qualcosa che parte della nostra tradizione”. (fine del ragionamento!). A proposito della pedofilia problema devastante e scomodo, riemerso con determinazione in questi ultimi anni, piaga inguaribile da due secoli prodotta da molti ministri di Dio, il card. Zuppi, ricorda, sollecitato dalla giornalista, a proposito di un’indagine promossa dalla Cei, di cui è Presidente, “sulla pedofilia all’interno della Chiesa negli ultimi 20 anni”, così risponde: “E’ una delle tante cose che stiamo facendo. Vogliamo che i fatti emergano e siano esaminati con critici scientifici” (Sic!).
Altra stupefacente risposta è quando la giornalista ricorda al card. Zuppi di aver “aperto” verso la “comunità Lghtq+ e verso tutte le famiglie non “regolari” per la Chiesa, che l’Istat ci dice sempre più numerose: coppie di fatto con o senza figli, famiglie allargate, unioni civili ”. In modo biforcuto ha risposto sulla concordanza delle posizioni dei due papi Ratzinger e di Francesco (senza citarle), e poi, alla Mao Tse-Tung, ha citato un brano del Vangelo, “dove Gesù si lascia avvicinare da una “peccatrice” e non la giudica”.
Insomma è un chierico enigmatico e sorprendente quando, infine, si pronuncia sulla maternità surrogata: “La maternità surrogata è un problema? Sì. Ma se mi chiedi di fare un battesimo a un bambino nato così, io lo faccio. L’ho fatto”. Vorrei trascrivere ciò che ha scritto il coraggioso ed intelligente giornalista Francesco Borgonovo su questa risposta del cardinale, apparsa sul quotidiano La Verità (6 agosto 2022): “Però, insomma, la maternità surrogata – cioè l’utero in affitto – non è soltanto “un problema”. E’prima di tutto un reato. E poi un abominio. Una forma infame di sfruttamento del corpo femminile e infantile, una commercializzazione della vita, una bestialità sotto ogni punto di vista”. Anche per questa “bestialità” come è stato detto, prevale da parte della Chiesa una certa ambiguità, un modo per dire ma non dire, oppure, peggio: procedere senza determinazione per giocare atteggiamenti strumentali e demagogici, in modo da non offendere quel potere rivoltoso e dissacrante che un tempo si combatteva e si moriva in nome dei valori cristiani.
In una canzone (sempre illuminante e di grande attualità) del poco rivalutato intellettuale –musicista –poeta Giorgio Gaber, dal titolo “I barbari”, ad un certo punto si legge:
“La fine di una civiltà si rivela dallo scadere dei vecchi principi su cui si reggeva, ma anche dagli atteggiamenti più banali della nostra quotidianità”. Osservando come la Chiesa oggi abbia perso il suo carisma, la sua veneranda presenza, il suo prestigio non solo religioso ma culturale, i “barbari” non sono quelli che stanno fuori dai nostri confini, ma siamo noi, che inseguiamo le mode, abbiamo bisogno di essere rassicurati, consolati e desiderosi di apparire, anche quando non si ha cosa dire o mostrare, qualunque sia l’abito che indossiamo, la nostra inutile e superflua vanità.
Franchino Falsetti