Inviti ad abbandonare il pensiero unico.
Sono considerazioni come fossero Cattivi Pensieri per chiedersi altro: siamo tutti colpevoli ?
Pubblicato il 14/04/2022
Raccontare al posto di testimoniare
Oggi il verbo raccontare è divenuto un sinonimo della oralità: vezzosa, di esperienze vissute, di fatti da descrivere e documentare, di discorsi inaugurali, coinvolgenti, partecipativi, ed etc. Tutto era politico, ora tutto si deve raccontare. Siamo destinati a vivere sdraiati sul lettino della psicoanalisi. Tutti abbiamo qualcosa da “confessare”, da esternare perché ci opprime, ci disturba, ci rende ansiosi, infelici, emozionati in modo irrefrenabile. Si raccontano (e non si descrivono) le esperienze. Si raccontano gli stati d’animo e non si esaminano gli stati d’animo.
Le guerre sono scenari da raccontare, come in un film d’azione, poiché questo aumenta il grado dell’afflato retorico, attenua la drammaticità, le atrocità, e lo stesso vedere è un semplice passaggio della cinepresa, un modo per percepire fugacemente immagini di repertorio, già viste, in migliaia di film, anche quelli più truculenti e di terrore. Ma la soglia d’attenzione ad un punto si svegliava e ci suggeriva che avevamo visto una finzione, una fiction, tanto per distrarci dalle negatività quotidiane della vita.
Dopo le narrazioni della Pandemia, siamo passati alla narrazione, ai racconti della guerra Russia vs Ucraina. La favola continua, così pure l’inganno e le menzogne. La realtà è una finzione, è un semplice artificio, non abbiamo più contatto con la realtà.
L’uomo attraverso il filtro virtuale dei giornalisti (preparati od improvvisati, ma tutti avidi di notorietà) ci hanno raccontato non la Storia dei tragici eventi, ma le loro storie, i loro camuffamenti, i loro sotterfugi, le loro scenografie, per rendere non la guerra infame, disumana, inutile, distruttiva dell’umanità, ma un semplice escamotage al fine di trasformare i mezzi delle comunicazione in nuovi idola del pensiero unico, di un unico sentire di massa tra i più efficaci ed più attendibili rispetto alla stessa anonima ed indifferente realtà che nel frattempo ci riempie lo schermo televisivo in technicolor a 32 pollici.
I giornalisti raccontano:
-“Sento un colpo forte. Ci saranno duecento o trecento metri da dove sono appostato! Sentiremo dopo se ci sono stati morti o hanno colpito una postazione nemica. Quale?”.
-“Sembra che sulla strada che porti a Kiev ci sia stato un forte attacco ucraino. Non abbiamo dati o resoconti sicuri su questo ennesimo orgoglio patriottico degli ucraini!”.
E così è stato il raccontare anche per i vari tentativi reali o finti della diplomazia. Ognuno ha voluto recitare un ruolo da film di “guerra finta” da rivedere durante un aperitivo.
Non sono le storie di Erodoto e neppure di Tucidide, tanto meno del grande Tacito. Lo sforzo, allora, era di saper fare cronaca, di essere testimone, di entrare come guerriero alla pari degli altri (dei soldati di ogni schieramento) come avvenne durante la guerra di Spagna, o nel Vietnam, od altri massacri che ben tutti ricordiamo (tutti provocati dal mondo capitalistico, dittatoriale, rassicuranti esponenti della Civiltà e del progresso umano!).
Il racconto ammette una fine (la famosa morale). La guerra ammette la rovina, la distruzione, l’umiliazione, la dispersione, la cancellazione di una Cultura, di un Popolo, di millenni di Storia dove l’uomo ha sempre sperato di costruire un mondo migliore.
“In pace i figli seppelliscono i padri, mentre in guerra sono i padri a seppellire i figli”. (Erodoto)
Franchino Falsetti