I DIMENTICATI. Luciano Bianciardi: La vita agra

I Dimenticati, protagonisti di un breve tempo

Luciano Bianciardi nel commento di Franchino Falsetti

Pubblicato il 18/11/2023

La vita agra di Luciano Bianciardi, Rizzoli, 1962

È un romanzo che nasce con intenzioni contestatarie e dinamitarde nel voler sognar di  abbattere il noto “torracchione”, simbolo del capitalismo e dello sfruttamento economico e sociale, dove  secondo le descrizione dell’Io narrante (esperienza personale nel Grossetano)  avevano sede gli uffici della direzione delle miniere.

“Il torracchione di vetro e alluminio intanto era sempre lì, immobile in mezzo al traffico. Della missione io per un po’ non seppi a chi parlarne, timoroso di sentirmi rispondere o che la notizia era invecchiata, o che stessi attento col pericolo del neorealismo”.

Siamo nella Milano frenetica, la capitale del boom economico, degli incontenibili flussi emigratori dal sud al nord, del trionfo del consumismo e dei nuovi disvalori.

Il protagonista si troverà a disagio a dover accettare questo mondo che negava, nella distrazione generale, la propria identità, giustificando nel nome del “modernismo” ogni ipocrisia ed inaccettabile menzogna.

Luciano Bianciardi (ph. Ugo Mulas)

In questo romanzo non troviamo solo una storia fatta di illusioni, di disadattamenti, di incomprensioni e di sogni “anarchici”, ma anche descrizioni e delusioni delle proprie scelte di vita (come essere traduttore) e cercare motivi per sentirsi “integrato” nelle nuove tipologie culturali e sociali.

Il critico Geno Pampaloni, a questo proposito, commenterà: “La cultura è mercificata, resa inerte, e posta in vendita adulterata dal sussiego delle mode sempre nuove”.

Si potrebbe dire che Bianciardi amante del risorgimento e dei suoi “scoppi”, abbia voluto trattare, con riferimenti autobiografici, una linea di continuità con l’irredentismo nazionale.

La vita agra. Prima edizione

Da questo romanzo, come si legge nella fascetta dell’ottava edizione, è stato tratto un film diretto da Carlo Lizzani ed interpretato da Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli.

Perché inserire questo romanzo tra i “dimenticati”? Perché pur avendo avuto un grande successo, amplificato anche dallo stesso magistrale film con due attori molto amati dal pubblico degli anni sessanta, dopo alcuni anni passò nelle sale private dei cineforum, proprio quelle che il grande scrittore Bianciardi banalizzava perché erano la tomba del dibattito culturale, della comprensione e valorizzazione dei contenuti filmici.

La vita agra, pur essendo un romanzo con interessanti freschezze narrative, venne contrastato dal consumismo, quello stesso che si incontra nella trama del romanzo e che rende insofferenti e ribelli i protagonisti.    

Per chi non avesse ancora letto questo dissonante romanzo, può essere indicativo trascrivere uno stralcio dal VIII capitolo, dove Bianciardi ci presenta, in modo originale, il mestiere del protagonista del romanzo: il traduttore.

“Tradurre, comunemente, si dice oggi. Ma nel Trecento dicevasi volgarizzare, perché la voce tradurre sapeva troppo di latino, e allora scansavansi i latinismi, come poi li cercarono nel Quattrocento, e taluni li cercano ancora oggi; sì perché que’ buoni traduttori facevano le cose per farle, e trasportando da lingue ignote il pensiero in lingua nota, intendevano renderle intelligibili a’ più.

Ma adesso le più belle traduzioni non si potrebbero, se non per ironia, nominare volgarizzamenti, dacché recano da lingua foresta, che per sé chiarissima e popolare, in linguaggio mezzo morto, che non è di popolo alcuno; e la loro traduzione avrebbe bisogno d’un nuovo volgarizzamento.

Si dirà anche recare, e l’immagine allora dipinge il vigore necessario al traduttore per levare di peso l’idea e la parola originale, e portarla in altra lingua ad uso di altri uomini, senza che il peso suo scemi con frode o cresca con fatica e noia. Voltare infine non è bello, perché dice lavoro più penoso, e perché voltare non solo non indica il ben rendere un’idea o una voce, ma talvolta il renderla diversa da quel ch’ell’è e anco perversa”.

                                                                                                                                                                                                                                                         Franchino Falsetti

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