Il Trittico del distacco nella Nota di lettura di Miriam Bruni
Pasquale di Palmo
DI PALMO PASQUALE, Breviario delle rovine, Medusa
MASSARI STEFANO, Macchine del diluvio, MC Edizioni
FINALISTI A PARI MERITO:
AGUSTONI NADIA, La casa è nera, Vydia Editore
BELLASIO ALESSANDRO, Monade, L’Arcolaio
NOTA DI LETTURA a Trittico del distacco
Questo è un libro che celebra l’addio al proprio padre e ad altre persone conosciute dall’autore nella sua giovinezza. Nella nota finale si premura egli stesso di esplicitare a chi o cosa appartengano determinati nomi (e nomignoli) di persone, strade o negozi incontrati dal lettore nelle pagine precedenti. A dire quanto quest’opera si origini e sviluppi attorno al germe della veridicità e della concretezza, come anche sottolineato da Maurizio Casagrande nella accurata postfazione (“P. Di Palmo si ripropone ai lettori con una nuova raccolta – a lungo meditata e dettata dal daimon dell’autenticità„).
Lo immaginiamo seduto su quella panchina di un parco suburbano (p.61) citata nell’ultima prosa poetica del libro da cui Di Palmo sembra tessere un memoriale che raggiunge tempi e luoghi recenti e meno recenti, episodi della vita passata come ad esempio quello legato al raccapriccio per la pallonata con cui colpì Franchino, provocandone il pianto (p.57), o alla pasticceria dove andava con gli amici d’infanzia e in cui portò anche il padre negli ultimi tempi, quando era ormai sempre più svogliato e abbruttito dopo l’ictus (p.25).
Ma lo riporto per intero perché questo testo mi sembra compendiare le peculiarità maggiori dell’intera opera.
Portare la poesia in dono sullo scheletro delle labbra a chi non interessa la poesia. Camminare incontro alla chiglia del giorno con il sole che ti bruca la faccia, in esso riconoscere la felicità degli ebeti. Stendersi in un prato, sedersi sulla panchina di un parco suburbano contro un cielo sereno. Rialzarsi nel vento senza i soliti mulinelli in testa, essere lieto della neve, die detriti, degli aghi di ghiaccio sulla carotide. Penetrare nella cordigliera del sonno senza più voce, finalmente muto, in spregio alle nuvole che ti burlano.
Si tratta di due rovesciamenti del sentire comune. Il primo riguarda il sole: viene perlopiù descritto come una fonte di sensazioni sgradevoli – anziché come un simbolo di forza e vitalità, a cominciare dal primo testo in cui l’aggettivo scelto è allucinato (p.17) e in quello immediatamente successivo in cui compare un aggettivo dello stesso campo semantico:luce ubriaca…
Strettamente correlato al sole, ecco che il cielo tutto viene anch’esso definito attraverso immagini che evocano un disagio: ha un colore schiacciato, (p. 22), si divincola fra i rami (p.25)
Il secondo sorprendente rovesciamento è interiore, psichico: la sovrabbondanza di suoni e parole che attraversano la mente risulta più un pesante fardello che una ricchezza, e viene difatti contrapposto al bianco su verde (p.60) dei cimiteri silenziosi. So per esperienza che solo chi sperimenta una profonda e prolungata sofferenza può arrivare ad agognare la felicità degli ebeti, e invocare un sonno senza più voce.
Ho trovato commoventi le numerose pagine che costituiscono il pannello centrale, numerate come una via crucis, specialmente la IX, la XI, la XIII e la XIV. La tredicesima stazione è densamente poetica e al contempo altamente descrittiva: un testo duro e tenero, amaro e dolce, affusolato e ossuto come la vera poesia sa essere.
Perché te ne sei andato Se non potevi neanche camminare? Sei uscito dalle tue labbra Per dissolverti in aria, diramarti e fiorire come un pesco nel giardino del piccolo ospedale lasciandoci soli nella notte di un’estate qualsiasi, increduli contro la tua bocca spalancata. Infermiere ti fasciano il volto di sasso prima dell’ultimo elettrocardiogramma (p.45)
Alcune informazioni sull’autore le troviamo nella poesia dedicata al padre che non c’è più, che chiude la seconda sezione, un testo scritto dal figlio più anziano (p.49) anche in dialetto veneto, la lingua parlata dal suo papà. Umile e sincera confessione da cui trapela il dispiacere per quel distacco mantenuto per ragioni culturali e caratteriali quando ancora era possibile parlarsi o darsi un bacio. Nella strofa centrale leggiamo:
Papà, adesso che non ci sei più, vorrei dirti quello che non sono mai riuscito a dirti per pudore per superbia perché mi credevo, io che leggo e scrivo tanti libri, di esserti superiore.
Concordo con Giancarlo Pontiggia quando definisce questo libro con i tre aggettivi seguenti: essenziale, lucido, pietoso (cfr. prefazione). E mi piace pensare che sì, anche Cosimo abbia sognato una volpe quella notte precedente al suo trapasso (cfr. p.34) e che possa davvero indirizzare ancora, dall’alto, i passi di suo figlio (p.46)
Una riga ancora mi concedo per evidenziare la tenue musicalità che il lettore può avvertire nella prosa poetica che sta in apertura dell’ ultima sezione. Ascoltate:
Chissà se esiste ancora quella minuscola bottega di ciabattino incassata in una viuzza di Marghera di cui non ricordo il nome. Via Scarsellini, forse, via Ca‘ Zorzi… Palazzi come falansteri. E chissà dove sarà finito quel ragazzo ritardato che, dietro montagne di scarpe sfondate, scartò con gioia il suo panino imbottito con gli avanzi della cena del giorno precedente, traboccante di spaghetti attorcigliati al pomodoro. (p.53)
Forse che davvero l’intima partitura della vita, di ogni vita, abbia a che fare con la Poesia?…