Editoriale della domenica
L’Editoriale Millecolline
Pubblicato il 07/04/2024
Quale cultura in Italia?
Non vuole essere solo una domanda retorica, secondo la tradizione stilistica e classica.
È proprio un drammatico interrogativo, poiché oggi la cultura non è neppure il culturame di vecchia memoria, ma la non cultura che come la non lingua non comunica e non costruisce nulla se non la moltiplicazione dei “taglierini” e la diffusa propaganda turistica per visitare, come un tempo avveniva per le Chiese barocche, i nuovi self service allestiti nei Musei, Pinacoteche e nei Beni culturali, ex giacimenti (Sic!).
I responsabili del settore fino al Ministro confondono la Cultura con l’attivismo, con quella movida della fine degli anni settanta del secolo scorso.
Ci fu la riscoperta dei luoghi da bere e con questo refrain si colonizzarono le bellezze di un “Italia ancora incontaminata ma visibile ed ammirabile”.
Non si dovevano conquistare i luoghi per aprire una catena infinita di ristoranti, pizzerie e ristori viandanti a “quattro ruote”, ma (rivalutando e valorizzando la “geografia” fin dai banchi di scuola) si doveva educare a leggere la cartina dello Stivale per scoprire le Mille Italie e la storia delle sue gloriose e preziose testimonianze, ognuna delle quali poteva richiamarci ad un intreccio interdisciplinare e culturale per scoprire e capire i perché di certi stili, di una certa produzione artistica, di certi modelli architettonici, di certe diversità inventive ed ideative tra Nord e Sud fino alla esclusiva identità dei singoli territori (attraverso la memoria archeologica ed il suo sapere).
Queste dovevano costituire il nuovo Progetto culturale nelle nostre Scuole e questo avrebbe evitato che le città storiche per eccellenza italiane venissero avvolte dalle scorie inquinanti delle ristorazioni all’aperto, trasformando ogni “evento culturale” in occasione d’intrattenimento, incontro mondano, semplice divertimento.
Il resto non è vita, ma tappezzeria decorativa, angoli di camminamento a lume di candela e nel chiacchiericcio omologante.
La parola “cultura” dal verbo latino colere può essere tradotto in “abitare”, “coltivare”, “ornare” (un corpo), “venerare” (una divinità), “esercitare” (una facoltà), ovvero avere abilità, attitudini e competenze specifiche. (Queste definizioni sono presenti in un saggio di Stefano Allovio, in “La cultura ci rende umani” – Movimenti, Diversità e Scambi, Milano, UTET,2018)
È ovvio che queste definizioni non siano esaurienti; la parola “cultura” ha ben altre connotazioni a seconda dell’uso ideologico, antropologico e filosofico, nonché politico.
E proprio questa molteplicità di significati ha determinato che ognuno affidi a questa nobile ed antica parola le aggettivazione che ritiene più opportune.
Una tendenza però che in questi decenni ha accumunato tutti i vari protagonisti o esponenti e rendere la cultura spettacolo, pubblicità, demagogia, effimera e visibile, consumistica, di massa, una delle tante voci con cui aggiungere un posto a tavola.
Con la Cultura (il sapere, il conoscere, l’appartenere, l’identità) non si mangia, mentre con la cultura si fanno affari perché sono le “tacche” che si segnano sul “bastone del potere” e diventano motivo per mostrare la propria intraprendenza e l’attivismo animistico per le processioni delle Notti bianche o delle Fiere editoriali o di mercato artistico.
La globalizzazione, anche se si sta modificando per i gravi conflitti in corso, è comunque artefice di questo appiattimento e della tendenza a rendere “colti” coloro che marcano il cartellino ad ogni appuntamento pubblico, promozionale od associativo.
In Italia ci sono più associazioni che abitanti e più abbonati che residenti.
Viviamo di cultura improvvisata, impoverita, indefinita, popolare, volgarizzata dai liberi pensionati, fuoriusciti ed anti- accademici: un vuoto a perdere, a getto continuo, ma con contorni di qualità gastronomiche internazionali e quelle culinarie nostrane deprivate delle loro autentiche tradizioni.
Cultura e tradizione sono, oggi, in Italia, in netta trasformazione e gradualmente sostituite dal “costume”, dai modelli importati del vivere, sempre più condizionati dalle mode consumistiche estere e animati solo dal desiderio di partecipare per sentirsi anche solo per un minuto protagonista (del nulla).
Franchino Falsetti