Editoriale
L’Editoriale Millecolline
Pubblicato il 27/11/2022
Non è solo nostalgia
In questa ultima domenica di novembre 2022 sfogliando una vecchia cartina geografica dell’Italia politica anni cinquanta del secolo scorso, come quando si apre una vecchia casa per lunghi anni abbandonata, la prima sensazione è quella di aprire le finestre, togliere ogni copri oggetto, le varie protezioni che hanno conservato nel tempo i domestici arredamenti, le vecchie librerie, gli addormentati ma sempre svegli libri di famiglia, le suppellettili disseminati lungo i corridoi ed i giocattoli stipati in grandi scatoloni.
Un risveglio di un mondo quasi dimenticato, anzi volutamente accantonato dal frastuono del progresso e dell’inarrestabile modernità. Tutto in quegli anni doveva cambiare. Quella cartina, sbiadita nei suoi colori e nelle minuscole scritte in corsivo delle città e dei fiumi, ha sollecitato ricordi come di quella casa abbandonata: le sue ricchezze vennero coperte, la luce non filtrò più nella casa e tutto cadde nel buio più profondo. Il sonno non solo della ragione, ma delle cose, degli oggetti più cari, gli affetti delle proprie esperienze, dell’allegria diffusa dalle voci argentine e stridule dei bambini e della famiglia sognante priva di sirene malefiche e devianti. E l’essenziale era la felicità che si provava dentro di noi e non ciò che si stava preparando: vivere secondo imposizioni di modelli estranei, resi obbligatori dal nuovo dio nascente, il cosiddetto capitalismo illuminato, il consumismo quale tirannica ipoteca sulle nostre coscienze.
In quel tempo che, ormai, ci sembra molto lontano le ambizioni erano relative, facevano parte di una certa categoria, molto spesso isolata ed incompresa. Mentre la stragrande maggioranza degli italiani con accenti più o meno marcati (vedi le tradizioni del Nord rispetto a quelle del Sud d’Italia) viveva senza ambizioni, con semplicità, spontaneità nel parlare, nel desiderare, nel sognare.
Le esperienze erano uguali per tutti (dalla scuola al cortile, dall’oratorio ai primi balli e primi amorini, dalla formazione al lavoro all’università). La crescita e la maturità erano cadenzate ed i ragazzi sapevano che alla fine per essere uomini dovevano superare la prima grande prova della vita che era rappresentata dal servizio militare. Ricordo che “sotto le armi”, così si diceva, un mio amico commilitone che aveva compiuto ben 26 anni (per i continui rinvii come studente universitario), mi disse: -“Sai, ormai, mi manca solo di morire. Ho già provato tutto: sono stato battezzato, ho fatto la prima comunione e cresima, mi sono laureato in ingegneria, ho travato un lavoro da ricercatore, mi sono sposato, sono diventato padre di due figli, adesso assolvo il dovere di servire la Patria e poi… Mi manca solo di morire”.
In poche parole aveva riassunto l’arco della vita, in senso operativo, attivo, produttivo, com’era, ancora, nell’educazione di quegli anni.
Avere un lavoro, una famiglia e dei figli erano gli obiettivi degli italiani, di essere Italiani.
In questa triade si riassumevano secoli di cultura delle finalità, della continuità, del rispetto di chi era venuto prima di noi, in particolare dei nostri padri e delle nostre madri.
Il linguaggio era essenziale ed estremamente comunicativo: prevalevano locuzioni come “mi piacerebbe” e “forse”. Poiché il mondo era ancora “incantato” non esistevano le parole dell’arroganza, del possesso, della lode, dell’onore vanesio e dei finti applausi dei saranno famosi.
Tutto si muoveva con semplicità ed ingenuità. La vita si colorava di giorno in giorno ed alla sera ci si addormentava con negli occhi le immagini della giornata trascorsa, le palpitazioni di aver conosciuto un nuovo amico o una nuova amica, i consigli dei genitori e “i mi piacerebbe” rimasti ancora sospesi. E si sognava e la mattina eravamo sereni e pronti per una nuova giornata da vedere, da sperare con i nostri “forse” perché ogni giorno era una conquista per migliorare cogliendo nuove stimolazioni, nuove conoscenze, nuove affettività, insomma, quel senso vitale dell’amicizia, dello stare insieme, dell’imparare a stare insieme, della collaborazione, della solidarietà, che allora erano senza scopi e finalità socio-politiche. Erano delle semplici necessità come ci ricordava Epicuro: per vivere.
In quello stesso periodo, quando anche la politica era rivolta alla ricostruzione dell’Italia e del suo benessere, arriverà più tardi il famoso boom economico, nella nostra Patria (mi piace usare questa parola e non “paese”) continuavano le tradizioni dei nostri padri. Le feste religiose e civili erano occasioni per imparare a conoscere pensieri, motti, proverbi e significati. Il senso della vita, di questa Vita si coglie proprio in queste ricorrenze, come per l’alternarsi delle stagioni della natura e la scala naturale delle nostre “stagioni”.
I libri di testo ci completavano le nostre formazioni di base, ci aprivano quel mondo che altrimenti sarebbe stato “coperto” come nella casa abbandonata. E le grandi letture dei classici e della letteratura per ragazzi ne continuavano gli approfondimenti e nascevano le prime discussioni tra gli studenti (che in quel tempo non si dedicavano a droghe, bullismi, violenze, né tanto meno a mortali anoressie del sapere e del volere) che leggevano, studiavano e volevano confrontarsi non solo con gli insegnanti (ancora veri Maestri) ma con i propri coetanei che a volte venivano spronati a leggere lo stesso autore per poi esprimersi sul valore delle loro tesi e visioni della vita, anche criticamente come le opere di Twain e Dickens. Ma esisteva un’altra parola che imperversava nei romanzi rosa e nei rotocalchi femminili: innamoramento. Altra parola desueta, non più pronunciata, non perché non è più di “moda”, ma perché si è perso questo sentimento della trepidazione, della dedizione, del sogno esistenziale. Quando qualcuno ti diceva sei innamorato, il rossore copriva la pelle della faccia in modo immediato, automatico, senza poter dire una parola, eventualmente, contraria. Era una sensazione bellissima: potevamo manifestare persino istintivamente con il colore rosso una condizione di pericolo e di piacere nello stesso tempo.
Pericolo perché venivamo così scoperti e piacere perché una strana sensazione ci percorreva lungo tutto il nostro corpo. E questa strana sensazione era comune per entrambi i sessi.
Questi non sono ricordi, non sono nostalgie, ma come meglio illustrò Leopardi sono ricordanze o meglio rimembranze. Un ricordare la rinascita, i luoghi sempre verdi dove rifioriscono le piante che portano i nomi dei sentimenti, delle consolazioni, dell’ascolto delle voci della Storia, delle nenie, delle cantilene, della poesia che ci cadenza i sogni, i “forse” che vivono in noi come quella luce che entra nella casa abbandonata per illuminare le cose che ci hanno accompagnato e che non possiamo dimenticare.
Oggi perdendo il senso della vita, le sue illuminazioni, tutto ciò che l’uomo può pensare e realizzare rischia di essere inutile, fine a sé stesso, quasi mortificante per dare qualche risposta del perché vivo!
Ieri si facevano domande per indagare. Ma le risposte erano più importanti perché ci rassicuravano che il nostro indagare portava alla conoscenza ed alla luce della verità.
Oggi si vogliono solo risposte, ma sono prive dei valori che dovrebbero essere tramandati.