Editoriale
L’Editoriale Millecolline
Pubblicato il 17/09/2023
Per quale futuro stiamo vivendo?
Sabino Cassese nel suo intelligente libro “Una volta il futuro era migliore” (2021), cita una frase di Bill Gates che voglio anch’io riproporre: “Verrà un giorno, e non è molto lontano, cui potremo concludere affari, studiare, conoscere il mondo e le sue culture, assistere a importanti spettacoli, stringere amicizie, visitare negozi del quartiere e mostrare fotografie a parenti lontani, tutto senza muoverci dalla scrivania o dalla poltrona”. (1995)
Una profezia che si è verificata e anche l’Italia è un Paese connesso in massima parte.
Ma senza ripetere le considerazioni di Cassese che possono essere tutte molte ragionevoli e senza pensare che “il futuro una volta era migliore “, vorrei aprire altri fronti di riflessione e considerare meglio il periodo che stiamo vivendo che ci offre solo delle ricadute, delle incertezze e delle insopportabili dejà vu.
Pertanto la domanda è: per quale futuro stiamo vivendo?
Avrete notato che, ormai, tranne le novità prodotte dal dinamismo delle azioni umane e sociali, tutto si ripete. Si potrebbe non leggere più i quotidiani. Avete notato che per riempire le pagine standard i giornalisti (anche quelli gallonati) hanno, da tempo iniziato a scrivere le loro memorie? Cosa pensavano 10, 20 o trent’anni fa. E quali erano i comportamenti più diffusi e come si viveva.
I giornalisti non scrivono più i fatti, non fanno più cronaca, non fanno più opinione, ma raccontano le favole moderne che ci tormentano di giorno e ci consolano di notte.
Perché accadono ancora certi fatti immondi che fanno parte del famoso decalogo di Mosè? Dopo millenni l’Umanità è rimasta ferma lì ed ogni generazione fino ad oggi ha ripetuto gli stessi misfatti e sui questi ha costruito l’onorabilità del Progresso.
Nella storia recente ha prevalso e prevale l’uomo senza qualità: la caduta dei valori tradizionali ha fatto nascere l’arroganza del dire quello che si pensa. Ma come pensiamo?
Non esistono scuole dove si impari a pensare, a parlare, a scrivere (svolgere tesi ed argomentazioni). Non esistono Scuole per tutti perché questo dono della parola sia reso efficiente, pertinente, educante.
Si parla, oggi, perché vediamo e memorizziamo.
Come dicevo qualche riga sopra, viviamo per ripetere e per immergerci nel mondo delle emozioni e sensazioni, ma non le elaboriamo, non le finalizziamo perché non ne siamo capaci.
E la “pancia”, la “carne” sono i nostri vitali sensori che condizionano il nostro costume, la nostra educazione, la nostra scuola. Ne parlerò in un’altra riflessione, ma uno dei mali della scuola italiana è che un certo progressismo ha teso a colonizzare la scuola. La scuola italiana non è un apparato politico dello Stato moderno, ma una realtà istituzionale su cui lo Stato ed il privato possono intervenire come se fosse un “bottino di guerra” e gli studenti prigionieri a disposizione.
Possono sembrare battute incomprensibili, ma vorrei tradurre con alcuni esempi.
Dopo gli anni settanta del secolo scorso, la scuola italiana subì forti e rivoluzionari cambiamenti: si passò dal considerare la scuola come unico centro educativo al concetto di Comunità e pii a sostenere la politica dell’extrascuola.
Cioè una scuola aperta ad ogni offerta formativa e così nacque il mercato dei progetti, delle presenze esterne come educatori, delle collaborazioni con Enti pubblici e privati.
La scuola italiana, imitando sempre il mondo anglosassone, divenne un nuovo mercato e questa preziosa, secolare Istituzione dell’imparare, si trasformò in una perfetta gastronomia di ogni inutile sperimentare e gara filantropica per “salvare” la scuola.
Ricordo in sintesi: dai corsi di judo, ai corsi di sciabola (per bambini), arti marziali varie, corsi di ikebana, fino alla partecipazione di Borse di Studio, di Concorsi, promossi da realtà amatoriali e dal Tempo libero, nonché dalla stessa Università per soddisfare una recente richiesta del cardinale Zuppi per ripristinare il “doposcuola e l’oratorio “.
Vecchia minestra (ottima nel periodo fascista e post fascista fino al periodo delle riforme…), che con l’offerta formativa e la nascita della scuola a tempo pieno vennero cancellate dalla scuola, adesso, di fronte all’acuirsi dei problemi biblici, si ritorna al vecchio “olio di ricino”, con le litanie di certi docenti universitari che non hanno visto neppure in cartolina queste esperienze, la loro storia, che a Bologna è stata unica nel mondo scolastico.
Non è con il riproporre passate esperienze che si crea il Futuro delle nuove generazioni. È proprio che la dissociazione che gli studenti in questi decenni hanno vissuto che ha fatto ammalare la scuola.
A scuola non per imparare ad imparare, ma per giocare alle mini installazioni prodotte dalle centinaia dei progetti che la scuola ha accolto ed accoglie mostrando la sua incapacità di insegnare. Si dice che chi non sa insegna e questo lo abbiamo visto ed i risultati sono alla portata di tutti.
La scuola come mass media: tutti contenti secondo il grado di gradimento e la percentuale di spettatori ed adesioni raggiunta.
Le famiglie sono soddisfatte (i propri figli possono sperare di diventare famosi), gli insegnanti sono felici (perché non hanno realizzato alcun programma, hanno mescolato il fare con il dire e non il fare con il pensare), gli studenti sono fieri (perché non hanno imparato nulla, ma hanno partecipato alla realizzazione di progetti richiesti dal mercato).
È inutile cambiare le leggi scolastiche, bisogna cambiare l’intero Sistema scolastico ed evitare ogni ingerenza esterna che non sia intrecciata con i processi disciplinari, metodologici, di apprendimento e di conoscenza, previsti dalla nuova “Carta” della scuola Italiana.
Forse con una nuova Costituzione della scuola Italiana si potrà riparlare di Futuro e di sicure professionalità per Nuove Società non solo connesse.
Vorrei che il grande Longanesi non avesse ancora ragione:
“Quello che non so l’ho imparato a scuola “
Franchino Falsetti