Francesco Menozzi sulle foto di Miriam Bruni

L’analisi-racconto di un poeta-scrittore

La fotografia che non finisce qui. Impressioni e pensieri di Francesco Menozzi sulle foto di Miriam Bruni.

Pubblicato il 22/07/2023

Ho chiesto a Francesco se gli andava di buttar giù qualcosa di scritto sulla mia mostra fotografica che era venuto a visitare nel mio quartiere di residenza, Borgo-Reno, e lui ha accettato. Ecco quindi cos’ha prodotto il suo conscio e inconscio la notte del primo luglio, a mostra appena terminata: una sorta di racconto-riflessione che Menozzi ha intitolato La fotografia che non finisce “qui”.

Sottotitolo: (La necessità di porsi domande vale sia per il pesce che per il poeta)

“Sono giorni in cui penso e ripenso alla mostra di Miriam Bruni perché vorrei scrivere qualcosa di intelligente, di bello e allo stesso tempo di giusto riguardo a quello che ho visto. Nonostante ciò, ora che mi trovo a fare i conti con la pagina bianca, le idee confuse ed uno strano senso di inappropriatezza che mi perseguita da qualche mese, ho deciso di svolgere un lavoro differente per tentare una strada forse più creativa, meno formale ma soprattutto più incline a quello che potrebbe essere il senso di tutto questo susseguirsi di foto e “microclimi” interiori che la mostra di Miriam mi ha evocato. Ho deciso di non rivedere le foto dopo quella volta per avvicinarmi alle immagini da un altro punto di vista, forse meno realistico ma più impattante e sincero verso ciò che posso dire a riguardo.

Ho usato l’immaginazione tentando di rubare – come un “ladretto” proveniente da un altro quartiere – quel segreto di vita quotidiana contenuto in una serie di immagini che raccontano la vita di una persona appassionata nel commentare la realtà che la circonda nel modo più autentico che le viene di fare. Mi piacerebbe raccontare di quel giorno, parlare della mostra attraverso gli occhi di uno che racconta di quel giorno, e se dovessi raccontare la mia verità dovrei partire dal corpo, da quanto il corpo ricorda di quella giornata. Ebbene, quello era uno di quei giorni da Emiliani tosti, compressi e compattati sotto la sauna afosa della cappa di caldo di una metà giugno anomala, un giorno di luce ultravioletta spacciata per estate che ci faceva sbuffare tutti quanti come fossimo animali sottoposti ad un duro lavoro da portare a termine. “Sbuf-sbuf” ci siamo detti ancor prima di salutarci, io poi ero reduce dal bombardamento di aria condizionata in macchina, sparata a palla dalla mia Modena fino a lì: circa trentacinque minuti di tempo. Questo dovrebbe bastare come incipit per testimoniare la mia presenza, dirvi che io c’ero, sono stato lì assieme a Miriam, Roberto Ceré e una amica di Miriam, tutti e quattro a sbuffare per benino. Detto questo eccomi ora, qua, a Vicenza, dove – colto da un momento di pausa, ultimamente percepito come un momento di pace – posso permettermi di fissare con maggiore intensità ciò che ho visto coi miei occhi e che ancora naviga nella mia mente per i fatti suoi. E l’idea che nella testa le cose continuino la loro traversata penso sia una cosa bellissima: noi siamo la testimonianza che esse non si annullano nell’istante in cui andiamo avanti, al contrario: restano, permangono dentro di noi e con il tempo occupano un territorio tutto loro, fintanto che certune si sedimentano, divenendo nel corso degli anni vere e proprie ricette di esistenza umana pronte a darci manforte quando necessario. (So che i nostalgici mi capiranno.) Perché alla fine siamo tutti navigatori, ognuno a modo suo con la sua “zatterella” e le sue ciabatte buone, alcuni con le infradito, altri a piedi scalzi e le camicie hawaiane: tutti navigatori in questa vita fatta di piccoli naufragi e boe di salvataggio, e forse la fotografia ha un ruolo centrale durante la nostra traversata. Le foto ce le hanno sempre fatte in ogni modo, anche con macchine da due soldi, le usa e getta che la maggior parte delle volte erano da gettare ancor prima di averle utilizzate, plasticacce mezze cotte dal calore che filtrava dalle vetrine in cui erano esposte senza alcuna precauzione per il rullino. Potete fermarvi ora e andare a recuperare un qualsiasi album di famiglia, andate pure ad aprirlo e capirete ciò che sto dicendo. Era una questione di occhio e di destino, non esistevano monitor e forme digitali per poter rivedere e selezionare il materiale, non esisteva il bello e il brutto, un tempo, la foto una volta stampata era un fatto compiuto, bello che inquadrato come un qualcosa che aveva raggiunto il suo fine maggiore, ossia venire al mondo tra mille peripezie. E a conti fatti quel risultato era bello di per sé, la magia era compiuta, gli acidi erano stati ben utilizzati, la luce non s’era infognata durante la stesura del rullino, qualcuno aveva messo una buona parola per quel negativo.

Poi c’era quel fotografo da spiaggia che negli anni Novanta mi fece dei bei ritratti con in mano il gelato colore dei puffi, mentre sorridevo e facevo gli occhi speranzosi. In quel caso il tizio girava con una reflex davvero pesante che gli cacciava il collo come un dromedario assetato, aveva un’ottica pressoché imbarazzante, anche se poi il risultato si è visto; ma per quanto mi riguarda non è la qualità in termini tecnici che decreta il “bello” contenuto in una foto, di quella ad esempio risalta quel turchese iper-chimico a base di latte. C’è sempre qualcosa che ci fa preferire una foto a un’altra e spesse volte non è la definizione dello scatto, la sua qualità, la bellezza dei luoghi o che ne so, i soggetti che vengono catturati al suo interno; c’è qualcosa che ci riguarda intimamente che ci fa vedere in un determinato scatto aspetti del nostro mondo interiore ben più profondi di quelli sviluppati dalla camera oscura.

Le fotografie di Miriam, ora che le rivedo ad occhi chiusi – come se avessi ricreato una piccola camera oscura al contrario che de-sviluppa cioè il materiale stampato – sembrano descrivere un qualcosa di profondamente intimo che accade nella vita quotidiana di lei, e il tutto appare con una tale naturalezza ed una tale semplicità da cogliere impreparato chi le vede di primo acchito. Chiunque, prima di pronunciare un qualsiasi commento, dovrebbe entrare nel mondo di Miriam in punta di piedi, perché ogni virgola, ogni particolare per lei possiede un significato riconducibile ad una sensazione, ad una parola che spesso come un rebus fuoriesce da grate e cancelli che stanno in primo piano in certe sue fotografie. Questo senso del vivere in uno stato di presenza costante permette, a chi si ferma e osserva, di cogliere tratti del quotidiano assolutamente unici, non tanto per la loro magniloquenza, bensì per la loro sublime semplicità, ricollocabili in un luogo di confine tra fantasia e realtà. Il binario di una stazione dei treni diventa un luogo mistico, racchiuso tra le cornici di una rete forata in cui Miriam decide di infilarsi per scoprirlo. Miriam scatta a sensazione, lei non premedita nulla durante il suo shooting, si potrebbe dire che la sua stessa vita è perennemente coinvolta in uno sguardo attento a ciò che la colpisce dentro; cammina, e se qualcosa le piace si ferma e l’acchiappa con quello che si trova tra le mani; una macchina fotografica, o anche semplicemente lo smartphone, perché l’importante è quel mix alchemico di impulsività, emozioni e pensieri che trovano conferma in un determinato luogo, ad un determinato momento del giorno, con una determinata luce. È un po’ come se il suo fare poesia si fosse allargato ad un linguaggio non più ancorato ad un dire di sé, ma fosse anche un tener conto di ciò che il mondo esterno fa germogliare in lei. Questo modo di fare fotografia è un modo elegante, disancorato da tutto quell’ imbellettamento intellettuale che oggi funziona come grande maschera tra i freddi e gli apatici, alla cui base non vi è una passione pura e incontaminata da lodi e riconoscimenti vari.

Vivere la fotografia come un’esperienza di raccoglimento, di meditazione e di comprensione della propria realtà, credo abbia a che fare con la religiosità e in un certo senso le cose che vengono bene debbono sempre lanciare uno sguardo verso l’alto. L’arte, forse, è in grado di scatenare reazioni o risposte a domande che provengono da un territorio interiore difficilmente affrontabile con gli strumenti che abbiamo a disposizione in questa superficie; quando l’arte ci scombussola o ci lascia perplessi, quando stimola una reazione ad un nostro modo di intendere la vita e ci fa vedere la cosa da un punto di vista differente, in realtà sta agendo nelle nostre profondità e nel muoversi in quei luoghi cavernosi è in grado di illuminare di tanto in tanto spazi bui, luoghi sommersi da inquietudini e credenze che spesse volte sono generate da malintesi o paure.  Quando penso alle foto di Miriam vedo le tappe di una persona che sta compiendo un viaggio, e che racconta passo passo il proprio tragitto, ma in silenzio, per portare rispetto alle cose che osserva; anche un’ombra sfuggente ha un suo valore, i riflessi sull’acqua sono la prova che al di là di ogni dubbio vi è questa terra che parla e ci protegge con i suoi colori, i suoi cieli e le sue luci.

Il Borgo raccontato in questo modo merita di essere conservato dentro di noi come uno sguardo tra sguardi, come un cammino tra i cammini, come una testimonianza nella storia, una storia più grande anche della storia che noi intendiamo. Guardare non è un semplice farsi tramite di quello che il mondo ci mostra, ci dev’essere un qualcosa che trapassa il mero senso e ci permette di diventare giorno dopo giorno più vivi, più simili a un disegno che affiora dalle nostre vicissitudini.

“C’è qualcosa al di là dal muro?” si potrebbe chiedere chi osserva un muro dalla mattina alla sera. “C’è altro oltre questo insensato moto di onde e abissi?” potrebbe essere il quesito per un pesce o un qualsiasi essere vivente al di sotto delle acque dei nostri mari; con le fotografie di Miriam sorge spontanea la domanda: “Cosa c’è al di là di questi scatti?” Queste sono domande che ci accompagnano per lunghi periodi, sono dei veri e propri argani che muovono in noi la necessità del cercare, del vivere secondariamente una vita delle “risposte”, fatta di esperienze dedicate esclusivamente alla nostra fame di conoscenza. Secondo me questo modo di intendere la fotografia come supporto per il proprio peregrinare alla ricerca di verità, bellezza e vita fa venire voglia di prendere la macchina fotografica ed uscire di casa per dedicarsi alle cose che ci rappresentano con la voglia di raccontare una storia, una storia in grado di oltrepassare la misura del semplice sguardo. Una storia in grado di farci sognare non perché viene detta a caratteri cubitali, ma perché si lascia intendere in maniera soffice e delicata. Così, se vi capita sott’occhio una fotografia di Miriam, cercate di farlo, quel balzo, cercate di andare oltre, per sentirvi parte di quel percorso che un’immagine può fare nel cuore degli uomini. Se vi viene difficile soffermarvi, passate oltre, ma tornate indietro quando ne avrete la forza: serve forza per guardare intensamente, per cercare, per conquistare un microscopico momento di pace assieme alle cose là fuori.” 

                                                     Ringrazio di cuore Francesco e vi invito a rivedere le foto a questo link                      

                                                                                        Miriam Bruni

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *