Le parole dell’Arte – Pop Art

Le parole dell’arte. 

A cura di Franchino Falsetti. 

Pop Art. 

“Gli artisti pop hanno creato immagini che chiunque era in grado di riconoscere all’istante – fumetti, tavoli da pic-nic, calzoni da uomo, celebrità, tende da doccia, frigoriferi, bottiglie di Coca-Cola – tutte le grandi cose moderne che gli espressionisti astratti avevano cercato tanto di non notare affatto”.

Così si esprimeva Andy Warhol, uno dei più noti e significativi esponenti della Pop Art ed in queste poche righe si racchiudono la filosofia ed il progetto artistico di una delle correnti culturali che, a partire dal dopoguerra,  ha rivoluzionato il mondo dell’Arte .

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Marilyn. Andy Warhol, 1967.

Nato in Inghilterra alla fine degli anni ’50, prese consistenza e si sviluppò in seguito negli USA, a partire dagli anni ’60, per poi attecchire e diffondersi in Europa, producendo, veri e propri ribaltamenti rispetto alle esperienze dell’informale e dell’espressionismo astratto (imperante).

Pop Art è una contrazione di “Popular Art” , cioè “Arte popolare”, dove il termine “popolare” va inteso di “massa”. Un termine già consolidato dai sociologi per indicare un nuovo modo di rappresentare l’immaginario collettivo della prorompente società dei consumi.

Questa espressione fu coniata dal critico letterario statunitense Leslie Fiedler per indicare le afferenze espressive e connotative della cultura di massa, del “mid-cult” , che dopo la seconda metà degli ’50,  si identificavano nei : fumetti, cartoons, ed altri prodotti, tipici della “bassa cultura” dei mass-media.

Il 1964, data memorabile, la Pop Art sbarca alla XXXII Biennale delle Arti Visive di Venezia, e gli artisti della scuola newyorkese della Pop Art, verranno selezionati ed il Primo Premio come miglior artista straniero verrà assegnato Robert Rauschenberg, provocando molte polemiche, anche all’interno della giuria internazionale. Questa scelta segnò la fine del primato europeo nell’ambito della ricerca pittorica delle avanguardie e collocò l’Arte americana, a partire dalla Pop Art , come il futuro dell’arte contemporanea e divenne il “modello imperante” nel mercato dell’arte internazionale.

Hopeless. Roy Lichtenstein, 1963.
Hopeless. Roy Lichtenstein, 1963.

La “nuova arte americana”, arrivò a Venezia , con l’appoggio del governo USA e fu subito lo sconcerto tra i visitatori e galleristi. Vennero messi in bella “mostra” :” barattoli sporchi – uccelli impagliati, tubi di dentifricio, ecc..”. Venne inventata l’icona degli oggetti- simbolo : le immagini che appartengono alla quotidianità e costituiscono, ormai, l’immaginario collettivo dell’uomo medio, oggetto della cultura e del mercato dei consumi.

Gli artisti Pop diverranno gli interpreti critici, banalizzando, di un mondo artificiale, fatto di plastica e di materiali usa e getta e di una cultura predisposta all’effimero, all’occasionale, al passatempo, ad un nascente e pervasivo edonismo, che caratterizzeranno gli ’70 e ’80 del secolo scorso.

Mimmo Rotella
Marilyn. Mimmo Rotella, 1962.

Il fumetto, l’illustrazione, la pubblicità mescolati, a volte, con i contenuti della tradizione pittorica delle precedenti esperienze artistiche, diverranno i nuovi motivi di proposta e di ricerca.

Mario Schifano
Coca Cola. Mario Schifano.

Tra gli esponenti di maggior riguardo, oltre alla spiccata ed originale personalità artistica di Robert Rauschenberg, ne possiamo ricordare altri come: Roy Lichtenstein – Richard Hamilton – William Copley -Mimmo Rotella- Mario Schifano ( principale esponente della Pop Art  della “Scuola romana”) – Giosetta Fioroni – Mario Ceroli – Concetto Pozzati .

 

 

                                                                       Franchino Falsetti

 

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Pillole corsare N°9 – E l’Italia si salvò, coprendo le “vergogne”!

E l’Italia si salvò, coprendo le “vergogne”!                      [n.9]    

Ci si ritrova ancora una volta meravigliati, quasi increduli, quando accadono cose di cui non si coglie alcuna ragione, alcuna seria motivazione od qualche, forzata giustificazione. Un tempo si diceva: roba dall’altro mondo. Ma l’altro mondo, in questi ultimi decenni, è diventato questo mondo. Si vive nella irrealtà, nella irrazionalità, nel non sense in assoluto. Il vivere alla giornata che era di una particolare categoria di superficiali e buona a nulla, oggi ne è diventata una ambita filosofia.

La recente visita del Presidente iraniano Hassan Rouhani è stato motivo di un episodio incomprensibile ed allarmante. In nome della ,ormai, disarmante politically correct, le statue di nudo dei Musei Capitolini sono state coperte da pannelli, riparatori di non si sa quale “peccato originale”.

E’ scoppiata, come è abitudine un’immediata polemica, che, con motivazioni diverse, gridando alla “censura”, al “provincialismo” ed addirittura alla “sottomissione”, non ha esordito alcun significativo effetto.

Ancora l’arena dei sussurri e grida. Questo è forse ciò che più deve essere considerato: come svegliare le coscienze italiche? In questi tristi tempi si parla un linguaggio che non è scritto. Nessuno riesce più  a leggere i testi di cui parliamo, di cui facciamo riferimento, di cui, in modo abitudinario e spavaldamente, usiamo per i nostri interventi predicatori e di relazioni con gli altri. La nostra cultura, quella italica, è rimasta e custodita negli scaffali delle Biblioteche. Nessuno li legge più, né li consulta, né li conosce.

L’incontro delle culture diverse, nel passato non ha creato alcun problema di “rimozione” psicologica o politica od ideologica. Le culture esprimono delle identità, senza far scattare una sorta di gerarchizzazione. Le culture diverse quando si incontrano sono di pari dignità. E nel rispetto di questa dignità sta il rispetto delle tradizioni, dei costumi, delle origini, di quel piccolo e grande mondo che è patrimonio di ogni popolo.

Coprire le “vergogne” di quelle statue femminili significa rinnegare il fondamento della cultura e della civiltà occidentale, mediterranea ed europea. Non ci vuole molto a capire che certi gesti non sono giustificabili, perché l’arte non ha bisogno di interventi “preventivi” di ipocrisie pubblicitarie. “Mettere le mutande all’arte per non offendere la suscettibilità di qualcuno! Ma sono loro, i visitatori, che debbono accettare i costumi di chi li ospita, non il contrario”. ( Adonis, poeta e saggista siriano ).

 

Foglia di fico su catrame. ( Ph. Roberto Cerè, 2013 )
Foglia di fico su catrame. ( Ph. Roberto Cerè, 2013 )

 

       Franchino Falsetti

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Cronache dal bosco della 40° Arte Fiera di Bologna

Di Franchino Falsetti.

Come uscire felici e contenti dal “bosco della 40°Arte Fiera” di Bologna  2016 ?

Non è soltanto un retorico interrogativo. In quarant’anni di vita le cose si sono centuplicate e questa singolare rassegna d’arte, assomiglia più ad un “festival” di evocazione lagunare, che non ad un sensibile e ricercato appuntamento con l’arte italiana in contatto con esperienze di grande interesse internazionale. Di fronte all’ invito di sentirsi meravigliati o “entusiasticamente” coinvolti, mi sembra che divenga opportuno partire dalle dichiarazioni o valutazioni degli organizzatori e sostenitori di questa kermesse, a cui, sembra, impossibile, criticare.

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Come leggeremo, tutti i vari protagonisti sono elogiativi e pronti ad auto referenziarsi, come se fossimo di fronte ad una permanente campagna pubblicitaria alla rovescia: dai contenuti al contenitore, dai prodotti esposti alla decantazione di contenuti di esclusivo richiamo per un mercato  privilegiato “condito” dagli inviti consumistici delle grandi sagre paesane. Un po’ come avveniva nelle famose e storiche “Fiere Campionarie” di Bologna, da cui l’edizioni dell’Arte Fiera” hanno avuto origine ( 1974 ).

Si trattò, secondo il gruppo dei temerari galleristi ed artisti fondatori di questa “stravagante” idea, di portare le opere, solitamente esposte nelle gallerie d’arte del centro cittadino, in un nuovo spazio, particolarmente, allargato ed affollato, come la “Fiera Campionaria”, di lunga tradizione popolare e molto amata dai cittadini bolognesi. I quadri e le sculture vennero collocati tra i “ mobili, arredi ed oggettistica di vario genere” .

Le gallerie  che parteciparono a questa  “improbabile avventura” furono una decina:  le bolognesi de’ Foscherari, Studio G7, Forni, Duemila, Il Cancello, La Loggia, San Luca, Stivani, e con la partecipazione della Galleria Giulia di Roma e la Vinciana di Milano.  Giorgio Ruggero, critico de “Il Resto del Carlino, nell’introduzione al catalogo della mostra di cui era curatore , si augurava che questa esperienza “sperimentale”, potesse crescere e “creare un nuovo e potente strumento di mercato” con lo scopo di “promuovere un’azione moderatrice, equilibratrice e calmieratrice nel discusso mercato dell’arte contemporanea”.

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Pasquale Ribuffo della galleria “de’Foscherari” ricorda così questa data, indubbiamente, memorabile: -“Soprattutto il caldo. La Fiera Campionaria si teneva a giugno. Eravamo un gruppo di cani sciolti, ma la città viveva un momento di grande fermento creativo. E Bologna l’accolse fin da subito con grande benevolenza. All’epoca era Sindaco Zangheri e poi c’erano Arcangeli e Anceschi”.

Concetto Pozzati, uno dei fondatori dell’ArteFiera così ricorda quei momenti: -“L’idea fu di Giorgio Ruggeri con Maurizio Mazzotti, uomo di grande sensibilità. E io, con Franco Bartoli della “de’ Foscherari” e Tiziano Forni dell’omonima galleria, aderimmo con entusiasmo.  Arte Fiera è nata così e ben presto si è affermata come la più importante in Italia oltre ad aver consolidato la scena artistica bolognese”.

Claudio Spadoni che cura con Giorgio Verzotti dal 2013 Arte Fiera con un preciso e comune impegno : rilanciare l’arte italiana ed il sistema artistico collaterale. Come orientarsi : -“Ai padiglioni 25 – 26 che come sempre proporranno rispettivamente il moderno e il contemporaneo, abbiamo affiancato un nuovo grande spazio che in qualche modo rappresenta le nuove tendenze. Qui abbiamo riunito la fotografia, la sezione Solo Show, rivolta alle gallerie che intendono esporre un solo artista, insieme alle Nuove Proposte, che cioè presentano elusivamente artisti under 35 […] Un dato ancor più significativo è poi che tanti dei galleristi che partecipano alla fiera da diverse edizioni hanno acquisito spazi più grandi, il che naturalmente implica per loro maggiori costi. Una prova inequivocabile del fatto che a Bologna si fanno affari”.

Laura Carlini Fanfogna – Direttrice dell’Istituzione Bologna Musei e curatrice della edizione di Art City: -“La manifestazione  Art City  vuole essere soprattutto una grande festa, sempre affollata. In cartellone ci sono oltre 70 eventi in 40 sedi diverse, dal centro alle periferie. Il programma prevede ancora il prolungamento degli orari nei musei, l’attivazione dell’Art City Bus, e gli appuntamenti che intratterranno i bambini […] Daremo spazio al saper fare e racconteremo riti, miti e mitologie, creando diverse connessioni e rimandi tra i protagonisti. Sono caratteristiche che si ritrovano anche nelle iniziative organizzate dalle altre istituzioni”.

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Simona Gavioli – Presidente di SetUp Contemporary Art Fair : –“ SetUp è ancora una fiera molto giovane, ma in questi anni è già cresciuta e maturata, ha più consapevolezza. E lo ha fatto grazie anche ai “furti” che abbiamo fatto in questi anni: ovviamente niente di illegale, ma come diceva Picasso: “ I cattivi artisti copiano, i geni rubano”.  Non penso di essere un genio, ma prima andavo alle Fiere in giro per il mondo solo come collezionista, adesso ci vado da addetta ai lavori e guardo tutto, soprattutto, i dettagli: dal catalogo, ai pavimenti e perfino le luci. Quando vedo una bella idea me la metto in borsa e la porto a SetUp. Il tema di quest’anno, l’orientamento ( dell’arte), non è solo una chiave di lettura per i visitatori, ma anche per noi, per capire cosa abbiamo costruito in questi pochi anni e un momento di riflessione per capire dove andremo”.

Alice Zannoni – Direttrice di SetUp Contemporary Art Fair : -“ L’orientamento ( dell’arte ) mi ha sempre intrigato in qualche modo è quello che permette all’essere umano ( e anche negli animali ) di non perdersi. E’ il sapere dove andare e metaforicamente significa avere le idee chiare sulla meta, sugli obiettivi. SetUp è nato con le idee chiare, infatti in 4 anni il format non è cambiato ma l’esperienza delle edizioni passate ci ha insegnato quale strada percorrere: in qualche modo abbiamo tracciato un percorso su una mappa ideale che corrisponde al fatto di avere capito da subito l’importanza di strutturarci sia in termini culturali che commerciali”.

Questa breve scorribanda tra le dichiarazioni ed interviste dei principali attori della quarantesima edizione dell’Arte Fiera- Bologna 2016, ci può aiutare, in modo molto parziale e limitato, ad aprire anche , per chi non è addetto ai lavori, un piccolo dibattito per farsi e fare altre domande ed altre considerazioni. Questa è una nota di libere considerazioni e non una cronaca dettagliata delle sezioni che hanno caratterizzato questo, comunque, importante compleanno artistico bolognese. Sono convinto, anch’io, che questa manifestazione è , indubbiamente, una esperienza di grandi prospettive ed aspettative, soprattutto, nel mondo dell’arte contemporanea. Un’epoca questa dove le emozioni sono morte e vivono solo provocazioni, performance, installazioni ed ogni “diavoleria” che non giova alla riflessione di chi pensa all’opportunità di costruire momenti per un “orientamento dell’arte”. Ma quale orientamento? Per orientarsi bisogna costruire dei punti di riferimento saldi, sicuri perché si possano operare delle scelte od iniziare percorsi di maggiore rassicurazione, di nuove creatività ed attendibilità. L’orizzonte dell’arte contemporanea  è fatto di frammentazioni visive. L’ideazione è frutto di mille contaminazioni e nulla ci colpisce, ci incuriosisce, se non considerare il tutto come l’ennesimo cascame di modelli già collaudati ed esauriti dall’arte moderna. Siamo una società sempre più priva di linguaggi, soprattutto, quelli espressivi , quelli che ci permettono di elevare la nostra richiesta di comunicazione interpersonale e sociale.

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La comunicazione, oggi, è disarticolata e soggetta alla parcellizzazione dello stile pubblicitario. E’ una comunicazione dimezzata, come è dimezzata l’arte che vive di esperienze effimere, sul già conosciuto, sulla deprivazione creativa. La grande festa dell’arte per suggellare, quello che conosciamo da circa due secoli, da quando Hegel decretò “la morte dell’arte”. Il grande storico dell’arte Antonio Paolucci a questo proposito : -“ […] l’arte che per convenzione chiamiamo contemporanea. In realtà non si tratta più di arte così come l’abbiamo intesa fino a ieri, ma di un’altra cosa. Non solo i linguaggi espressivi ma i codici di riferimento, l’idea stessa di arte, sono radicalmente e irreversibilmente mutati”. ( “Arte e bellezza”, 2011)

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Questo non significa che dobbiamo sentirci degli astiosi verso il “contemporaneo” e diffondere campagne apocalittiche sul significato dell’arte contemporanea o su dove va l’arte in generale. Si tratterebbe di avere visioni meno compensative e consolatorie o di voler a tutti i costi, pensare che l’arte contemporanea sia la continuità naturale dell’arte moderna e quindi di una certa classicità, su cui, spesso qualcuno vuol evocare. Ogni tempo ha la sua arte, ogni società ha la sua arte, ma è ancora vero?  Mi sembra molto difficile pensare al concetto di “straordinarietà” dell’arte e mi sembra anche “strumentale”, far convivere l’arte moderna con l’arte contemporanea, come avvenuto in questa edizione dell’Arte Fiera 2016. Anche questa operazione per mantenere alto l’obiettivo: più vendita più successo = più vendita più mercato.

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E’ possibile pensare un appuntamento culturale senza fare cultura? E’ possibile ignorare che conoscere è una valore di tutti e per tutti? E’ possibile ri-pensare che la città potrebbe diventare una grande aula didattica, dove gli strumenti del conoscere sono le iniziative, le manifestazioni, gli incontri, le conversazioni  con il pubblico, ect…e dove, l’obiettivo fondamentale dovrebbe essere quello, come avveniva nel Medio-Evo e nel Rinascimento, quando il pubblico diventava scolaro e gli scolari diventavano sapienti.

Oggi moriamo di “notti bianche”, di “happy hours” , di gastronomie invasive ed invadenti. Tutto viene trasformato in un grande happening, in una grande “abbuffata”, dove , quello che è importante è consumare e finire stremati, intontiti e privi di ogni reale motivazione.

Oggi la partecipazione non è finalizzata a comprendere e cambiare. La partecipazione si è, fortemente, massificata, che si sono inventati i “gadget”. L’arte contemporanea è il grande gadget, su cui si concentrano i loisir dei fantasiosi, cosiddetti, artisti ed essi , invece di essere dei convincenti testimoni critici di un’epoca decadente e degradata, sono, essi stessi passivi e condizionati rappresentanti della disarmante incapacità a saper interpretare e denunciare  i veri fatti che stanno cambiando il nostro modo di vivere, di pensare, di agire e di comunicare. Gli artisti del XXI secolo, potrebbero essere i nuovi profeti per un riscoperto mondo nuovo e per rinnovare quella speranza di un ritorno alla “Bellezza” per un mondo migliore e per un’arte ritrovata, liberata dalle mode intellettualistiche e provocatorie.

 

PH MICHELE ALBERTO SERENI

Franchino Falsetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia di riferimento alle interviste riportate ed informazioni sull’evento.

 

  1. Arte Fiera –La Repubblica – trova Bologna – 28 gennaio 2016
  2. Bologna da vivere – gennaio 2016
  3. Arte & Fiera, a cura di Claudio Spadoni e Giorgio Verzotti, 2016

 

 

Pillole Corsare n.8 – C’è un nuovo sogno : diventare italiani!

C’è un nuovo sogno: diventare italiani !                            [n.8]        

Non è il flusso e la presenza dei nuovi emigranti, cosiddetti extracomunitari, che da oltre trent’ anni sono entrati in contatto o vivono nel nostro Paese, a suggerirci questo utopico obiettivo. E’ il nostro modo di essere, di pensare ed agire in contesti plurimi e liberi da ogni pro-memoria comportamentale. Non possiamo  sentirci emotivamente italiani. Dobbiamo essere formati ad essere italiani ( uno storico imperativo! ). Dobbiamo ri-diventare italiani. Dall’Unità d’Italia ad oggi, per vicende complicate od irrazionali, abbiamo perso od abbandonato l’antica affermazione poetico-letteraria di essere i figli di Enea e cioè predisposti all’accettazione dello straniero senza particolari servilismi od opportune strumentali  rinunce. Nel frattempo, in modo particolare, all’indomani della nascita della Repubblica, veniva adombrata, a partire dai libri di testo scolastici, tutta la letteratura patriottica : il concetto di Patria, come ideale e bandiera della nostra identità, nostra italianità, veniva vanificato come retaggio “fascista” di una cultura non democratica e totalitaria. E tutto è stato , in seguito, banalizzato, ridicolizzato ( con studi ed saggi di illustri letterati, pedagogisti ed intellettuali ) a partire dalle opere di Edmondo De Amicis fino a Giovanni Pascoli. Bersaglio principale fu ed è il mondo della scuola. Questo non ha fatto bene né all’Italia, né agli italiani. I sentimenti verso qualcosa o qualcuno sono la “fiammella” che alimenta gli ideali, i valori, quell’universo di conoscenze che caratterizzano un modo di appartenenza, di essere di un popolo o di un singolo cittadino. Il simbolo per eccellenza, come il nostro tricolore, non deve solo sventolare sui palazzi in costruzione, su parate e cerimonie di protocollo o per un alza bandiera . Il “tricolore”  deve ritornare a risvegliare l’orgoglio dell’italianità, conquistata ed esaltata dal sacrificio di milioni di italiani, morti per la Patria , come ci ricordano le sacre parole dell’Inno di Mameli. Non possiamo solo sentirci italiani, dobbiamo diventare italiani, cioè riconquistare quello che un tempo si diceva “l’amor patrio”, eliminando ogni forma di sentimentalismo e di abbandonare, nello stesso tempo, le formule di accomodamento politico e governativo, in nome della cultura del “buonismo”, che ci spogliano di ogni storica, civile e religiosa ragione e fede di essere italiano, repubblicano, democratico ed europeo.

 

Sventola ancora. (Ph. Roberto Cerè)
Sventola ancora. (Ph. Roberto Cerè)

 

                                                                                                                                                                                                                                                      Franchino Falsetti

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Pillole corsare n.7 – Di cosa dobbiamo, davvero, preoccuparci?

Di cosa dobbiamo, davvero, preoccuparci?                                [n.7]

Molti sono gli allarmismi che leggiamo ogni giorno sui giornali o vediamo, senza sosta, in televisione o nei “cari” tormentoni mediatici.

Tra questi, non trovo quello che, in modo invisibile, sta trasformando il nostro modo di vivere, ma, soprattutto, la visione della nostra breve esistenza su questa Terra. Alla angosciante “uniformità” dei giornali, si aggiunge l’ossessivo tam tam che percorre, con narrazioni romanzesche, l’intero mondo dell’informazione a livello planetario. Il processo di spettacolarizzazione di ogni avvenimento: da quello mondano a quello drammatico, domina e condiziona ogni tentativo di comprensione e di interpretazione della realtà. Si è spenta ogni forma di critica, di riflessione e di conoscenza di quanto vediamo, ascoltiamo e leggiamo. Tutto fa parte di un progetto di pianificazione che porta all’assenza delle coscienze, ad una rinuncia automatica, non motivata, di sentita e consapevole partecipazione. Viviamo un mondo di immagini che si riflettono su noi stessi e ci rendono funamboli, privi di ogni emozione, di ogni reazione di fronte all’irrazionale distruttivo che si muove attorno a noi.

La cultura occidentale non è solo nel suo declino, ma ha raggiunto il baratro, cioè la linea della sua “autodistruzione”. Non valgono i paragoni con la fine dell’Impero Romano o la morte delle ideologie. Non è il tempo di trovare alibi o consolazioni. L’uomo occidentale del XXI secolo è ritornato “nudo”, come lo era nei secoli, definiti bui: privi di luce, di  vita, di aspettative, di difese, di amore. Secoli in cui governavano la rassegnazione, la rinuncia, l’indifferenza. Ecco di cosa dobbiamo, davvero, preoccuparci: oggi i mass media ci hanno deformata la percezione della realtà. Oggi leggiamo la realtà con gli occhi dei massa media e tutto ci sembra una fiction di orwelliana memoria. Abbiamo perso i senso della realtà, il senso dell’orrore, il senso della vita e della morte. Tutto si è gradualmente disumanizzato. Viviamo in un mondo di “favole” alla rovescio, dove non si scrive più …. “e vissero felici e contenti

 

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Immaginando fondali di pietra. Ph. Roberto Cerè

  

                                                                                                                                                                                                                                                             Franchino Falsetti

 

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le parole dell’arte: Arte Povera

Arte Povera

Nel 1967 il critico Germano Celant, ispirandosi al “teatro povero” di Jerzy Grotowski, definì Arte Povera la tendenza che comprende i seguenti artisti italiani : Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini, Mario Merz, Gilberto Zorio, Jannis Kounellis, Pino Pascali, Luciano Fabro, Emilio Prini, Giovanni Anselmo, Giuseppe Penone, Pier Paolo Calzolari, Marisa Merz, Gianni Piacentino, Mario Ceroli, Pietro Gilardi.

Perché si pensò a questa denominazione dell’arte?

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Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969. Alighiero Boetti.

L’utilizzo dei materiali della quotidianità, non privilegiati come : carta, stracci, pietre, legno, nonché gli elementi acqua, terra, fuoco, caratterizzavano il processo, in modo arbitrale ed anticonsumistico, di tradurre un’idea in materia. C’è una sorta di rivolta contro le concezioni “storiche” dell’arte e le tavolozze, i colori, la tela od altro materiale del corredo tradizionale dell’artista, viene sostituito dall’uso concreto degli elementi che connotano la natura e la sua interpretazione.

L’arte ritorna ad uno stato primitivo, una condizione priva di ogni condizionamento manipolativo e consumistico.

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Senza titolo 01. Jannis Kounellis.

Un’arte “naturale” fatta di elementi “naturali”, priva di ogni atto convenzionale. Un’arte che vive fuori dagli ambienti canonici, come i musei o le gallerie. Un’arte che irrompe nelle piazze, nelle strade e tende a comunicare una sorte di “energia vitale”, un coinvolgimento diretto nel sociale. Determinante, per capire meglio, questa tendenza, valgano alcuni commenti che lo stesso Celant espresse, inaugurando la prima mostra del gruppo “Arte povera-Im Spazio”, organizzata nel 1967 alla Galleria La Bertesca di Genova ( settembre – ottobre ). Riferendosi  a lavori di Paolini, Boetti, Fabro, Prini, Kounellis, Pascali , così sottolineava: “ I singoli lavori dimostrano una tendenza generale all’impoverimento e alla decultura dell’arte ( da cui il nome arte povera ). Sono un contenitore di carbone ( Kounellis ), una catasta di tubi di eternit ( Boetti ), una tautologia del pavimento ( Fabro ), due cubi di terra (Pascali ), la lettura dello spazio ( Paolini ) e il perimetro d’aria di un ambiente connotato sonoramente e visivamente ( Prini ). Tutti esaltano il carattere empirico e non speculativo del materiale adottato e dello spazio dato, cos’ che l’attenzione dell’arte si sposta alla corporeità degli avvenimenti e degli elementi naturali non artificiali […]”.

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Venere degli stracci. Michelangelo Pistoletto, 1967.

Giuliano Briganti, importante storico dell’arte,  nel suo intelligente e stimolante  libro “ Il viaggiatore disincantato, Einaudi, 1991”, sull’arte povera, vedeva la nascita del “mito ideologico di una nuova autonomia dell’arte, di un’arte che si libera, per forza di volontà e con piena consapevolezza, non solo da ogni forma prestabilita ma dalla struttura del potere e del mercato; il mito di un’arte che tende ad annullarsi identificandosi con il processo stesso della vita”.

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L’Italia fascista. Luciano Fabro, 1969.

Possiamo aggiungere che questa esperienza non è stata confinata o circoscritta, collocandola solo in un preciso tempo storico, ma ha sollecitato e sviluppato altre vie, in particolare : dalla installazione alla land art.

 

 

Franchino Falsetti

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